Il Concilio volle inglobare gli “exercitia pietatis” nella liturgia
L’art. 13 della SC si muove nella stessa direzione, cercando addirittura di inglobare i “pii esercizi” nella liturgia. È vero che esso raccomanda “vivamente” i “pii esercizi del popolo cristiano”, purché naturalmente “conformi alle leggi e alle norme della Chiesa”, ed in particolare quelli “che vengono compiuti per disposizione dei Vescovi”; tuttavia, esso ordina che tali esercizi “siano regolati tenendo conto dei tempi liturgici e in modo da armonizzarsi con la Liturgia; derivino in qualche modo (quodammodo) da essa e ad essa introducano (manuducant) il popolo, dal momento che la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi”. Oltre che “armonizzarsi” con la liturgia (necessità della quale nessuno in passato aveva mai dubitato), le pratiche della devozione privata ed in sostanza il culto interno devono “in qualche modo” derivare dalla liturgia e, ciò che più conta, “introdurre ad essa” i fedeli, condurveli come per mano. E questo obiettivo è giustificato con la constatazione, tutto sommato abbastanza ovvia, che “la liturgia è per natura sua di gran lunga superiore ai pii esercizi”. Ma in tal modo, l’art. 13 toglie al culto interno la sua propria autonoma finalità, facendone (di nuovo) un semplice strumento liturgico, un ausiliare della liturgia, dal momento che esso deve servire soprattutto di “introduzione” ad essa.
Infatti, se tale culto, oltre a derivare dalla liturgia, deve condurre ad essa, allora non possiede più quel fine rappresentato dall’elevazione del nostro animo a Dio mediante la purificazione interiore ricercata ed attuata grazie alle varie forme degli exercitia pietatis, che richiedono, come ha bien spiegato la Mediator Dei, “l’esercizio” della nostra intelligenza, volontà e ragione. Questo attribuire un fine liturgico al culto interno, oltre a contraddire l’ insegnamento costante della Chiesa, dissolve – cosa gravissima – la fondamentale caratteristica della pietà privata cattolica, che non è mai stata quella di una contemplazione sentimentale o di un’esperienza di tipo mistico, che rappresenta sempre uno sviluppo eccezionale: è sempre stata quella, invece, di uno sforzo congiunto della nostra anima e del nostro intelletto, sforzo quindi all’insegna della volontà e della ragione, che ricercano coscientemente l’aiuto dello Spirito Santo al fine di lasciarsi umilmente guidare da esso. Lo scopo rappresentato dal nostro perfezionamento individuale, dalla nostra santificazione, ossia il fine specifico della vita devota, non è un fine che, come tale, si debba ricondurre alla liturgia, che pure fornisce, nei riti dei Sacramenti, della Messa, nel rito in generale, strumenti fondamentali per il suo raggiungimento. Alla luce della retta dottrina della Chiesa, incomprensibile mi sembra perciò il dettato finale dell’art. 13 della SC. Esso non sembra rispettare affatto il principio ribadito da Pio XII, sempre nella Mediator Dei, secondo il quale, “farebbe cosa perniciosa e del tutto erronea chi osasse temerariamente assumersi la riforma di tutti questi esercizi di pietà per costringerli nei soli schemi liturgici”; è sufficiente che “lo spirito della Liturgia ed i suoi precetti influiscano beneficamente su di essi, per evitare che vi si introduca alcunché di inetto o di indegno”. Ma l’art. 13 della Sacrosanctum Conciluium non si limita di certo a questo; vuole apertis verbis che lo scopo stesso degli esercizi, e quindi del culto interno, sia quello di condurre i fedeli
alla liturgia!
Il carattere “pernicioso” della riduzione degli esercizi di pietà del culto interno “nei soli schemi liturgici”, profeticamente denunciato da Pio XII, è confermato dal fatto che il vero spirito degli esercizi di pietà sembra essersi oggi dissolto, sostituito da quello di un’esperienza interiore tendente al liturgico e quindi di tipo misticheggiante, di quel misticismo spurio che abbonda nella liturgia del Novus Ordo, la quale, come si è ricordato, ha messo protestanicamente al centro dell’ azione liturgica la comunità, il “popolo di Dio” riunito “in assemblea” per “sentire” la presenza di Nostro Signore già nella Sua Parola e farsi possedere da essa, credendo di attuare già in tal modo la propria salvezza.
Il Concilio volle far scaturire lo spirito di preghiera dalla prassi di vita
A che serve, mi chiedo, che la Sacrosanctum Concilium raccomandi vivamente i tradizionali esercizi della pietas cristiana per i seminaristi, i sacerdoti, i laici, se poi ne stravolge il fine, nel modo che si è visto, alterandone perciò lo spirito? O se cerca nello stesso tempo di diminuirne comunque l’importanza rispetto alla prassi rappresentata dalla vita conforme al Vangelo? Si veda ad esempio quanto scrive l’art. 8 del decreto Optatam totius sulla formazione sacerdotale: “Siano vivamente inculcati gli esercizi di pietà raccomandati dalla veneranda tradizione della Chiesa; bisogna curare però che la formazione spirituale [dei seminaristi] non consista solo in questi esercizi, né si diriga al solo sentimento religioso. Gli alunni imparino piuttosto (discant potius) a vivere secondo il Vangelo, a radicarsi nella fede, nella speranza e nella carità, in modo che attraverso l’ esercizio di queste virtù possano acquistare lo spirito di preghiera [Giovanni XXIII, Enc. Sacerdotii Nostri Primordia AAS, 51, 1959, p. 559 ss.], ottengano forza e difesa per la loro vocazione, rinvigoriscano le altre virtù e crescano nello zelo di guadagnare tutti gli uomini a Cristo”.
La “formazione spirituale” dei seminaristi non deve esser affidata ai soli “esercizi”? Ciò avveniva forse in passato? Non credo lo si possa affermare, anche se gli “esercizi” occupavano certamente un posto importante nel loro culto privato (così come lo occupavano in quello di molti devoti fedeli). Comunque sia, appare singolare voler sottrarre proprio alle pratiche della devozione privata il merito di contribuire in maniera essenziale all’acquisto dello spirito di preghiera e alla fortificazione delle virtù cristiane; merito che si vuol attribuire, invece, all’esercizio delle tre virtù teologali nella vita di tutti i giorni. Lo spirito di preghiera dovrebbe pertanto formarsi soprattutto nella prassi, nell’azione, rappresentata ovviamente dalla vita condotta “secondo il Vangelo”. Impostazione ancora una volta diversa da quella della Mediator Dei, che, come abbiamo visto, rivendicava all’interiorità del credente il suo diritto alla meditazione sulle verità eterne e alla comprensione razionale della fede, con l’ausilio dell’introspezione di sé, dei ritiri spirituali, del Rosario, dell’ adorazione del Santissimo; tutte cose che non ci sono offerte come tali dalla vita nostra di tutti i giorni ma presuppongono invece una nostra separazione da essa, sia sul piano spirituale che su quello materiale (nel caso dei ritiri o esercizi spirituali).
Mi sbaglierò, ma quanto affermato qui dal Concilio mi ricorda un concetto fondamentale de L’Action di Blondel: “ l’atto è in un certo senso il pedaggio ed il passaggio della fede: presuppone l’ abdicazione totale del significato intrinseco [che, a quanto pare, apparirebbe solo nell’ azione]; esso esprime l’umile raggiungimento di una verità che non proviene dal solo pensiero; immette in noi uno spirito diverso dal nostro. Fac et videbis”. Fac et orabis, dunque. L’azione prima del Verbo, contro tutto il plurisecolare modo di sentire e di essere della Chiesa. L’azione ossia il dialogo, che è l’ unica forma d’azione che la Gerarchia formatasi nello spirito del Vaticano II riesce a concepire : dialogo e non più missione. L’azione che si costituisce nel riconoscimento dell’altro, affinché la fede risulti arricchita dei valori di quest’ultimo; azione, dunque, non per convertirlo alla vera fede ma per lasciarsi educare dai suoi valori, ad essa fede o indifferenti od ostili! L’azione, il cui scopo è manifestamente rovesciato rispetto a quello attribuito da Nostro Signore alla Santa Chiesa, da Lui stesso fondata!
In ogni caso, anche se non si vogliono qui ammettere retroterra blondeliani, rimane netta l’ impressione che questo testo conciliare – dopo averli vivamente raccomandati – tenti di sminuire l’ importanza degli exercitia pietatis nella formazione dei seminaristi, ritenendoli come tali insufficienti a far acquistare loro lo “spirito di preghiera” e a rafforzarne la vocazione e le virtù. Sembra quasi che il testo voglia vedere una sorta di contrapposizione tra gli “esercizi di pietà” ed il “vivere secondo il Vangelo”, come se le pratiche del culto interno non fossero già un “vivere secondo il Vangelo”, non mostrassero già in atto l’esercizio delle virtù teologali. La contrapposizione risulta, a mio avviso, dal lessico, con l’impiego dell’avverbio potius:discant potius, “imparino piuttosto...”. Che cosa? Evidentemente, qualcosa di meglio degli “esercizi”; imparino piuttosto a vivere effettivamente secondo il Vangelo etc. Come se gli exercitia pietatis rendessero di per sé difficile ai seminaristi vivere secondo il Vangelo!
E l’articolo si appoggia in nota all’Enciclica che Giovanni XXIII dettò per commemorare il centenario della morte di S. Giovanni Maria Battista Vianney, il santo curato d’Ars. Ma se uno va a controllare le pagine richiamate nel testo del Concilio (si tratta del par. II dell’enciclica, op. cit., pp. 558 -566) a mio avviso non trova alcun riscontro a dualismi di sorta tra exercitia pietatis e spirito di preghiera.
Infatti, quel Papa vi esortava i sacerdoti a sviluppare e mantenere lo “spirito di preghiera” nonostante le cure pastorali sempre più assorbenti imposte dal mondo moderno ed indicava loro ad esempio il santo curato d’Ars, il quale eccelleva in esso, nonostante le cure pastorali estremamente assidue (confessava in continuazione, sino a quindici ore al giorno, come poi S. Leopoldo da Padova e San Padre Pio). Egli traeva grande forza spirituale dalla frequente adorazione del Santissimo nel Sacro Tabernacolo e dalla pratica delle mortificazioni. Certo, si può dire che lo “spirito di preghiera” del curato d’Ars traesse alimento in misura prevalente dalla prassi della sua vita sacerdotale, dal momento che egli trascorreva gran parte della sua giornata in confessionale. Ma dopo aver posto loro come esempio ai sacerdoti la vita devota particolare ed eccezionale del curato d’Ars, quel Papa rammentava loro come esistessero da sempre “varia sacerdotalis pietatis exercitia”, i quali “massimamente producono e conservano quella assidua unione con Dio”, che viene spiritualmente in essere grazie alla preghiera. Massimo elogio degli esercizi di pietà, dunque, da parte del Papa, e nessunissimo accenno ad una loro possibile inadeguatezza a far acquistare e mantenere lo “spirito di preghiera”, né ad un loro possibile antagonismo con la vita cristiana. E l’enciclica ricordava i più importanti, che la Chiesa, con le sue “sapientissime leggi”, aveva reso obbligatori per i sacerdoti: “la sacra meditazione giornaliera, le visite al Tabernacolo, la recitazione del Rosario Mariano, il diligente esame di coscienza”. L’eventuale negligenza nell’osservanza di queste pratiche, essa concludeva, era in ogni caso da attribuirsi esclusivamente a quei sacerdoti che si fossero lasciati travolgere dal “vortice” delle cure esteriori, e alla fine sedurre dalle lusinghe del mondo (terrenae huius vitae illecebris allecti).