Se andare a Messa fa perdere la fede
di Francesco Antonio Grana
“Come andare a Messa e non perdere la fede”. È il titolo del nuovo libro di Nicola Bux, edito da Piemme, con un contributo di Vittorio Messori. Sacerdote e docente della Diocesi di Bari, romano per studi teologici e orientalistici, gerosolimitano per quelle sulle liturgie cristiane, Bux ha dedicato vari libri alla liturgia, ecclesiologia ed ecumenismo che sono stati tradotti nelle principali lingue europee. Amico di lunga data di Joseph Ratzinger, che nel 1997 presentò il suo libro “Il quinto sigillo”, Bux ha collaborato alla riforma postconciliare della liturgia, musica e arte sacra nella sua Diocesi e nella sua Regione con il liturgista benedettino l’Arcivescovo Andrea Mariano Magrassi, e con don Luigi Giussani in Comunione e Liberazione.
Don Nicola Bux, perché andando a Messa si può perdere la fede?
Perché la Messa in questi ultimi decenni non è più celebrata come espressione di un rito bimillenario della Chiesa cattolica, ma spesso secondo gli adattamenti e le creatività dei singoli celebranti. Per cui capita di partecipare in una parrocchia a una un certo di tipo di Messa e in un’altra a un altro tipo. Ciò ha finito per creare solo disorientamento, e spesso anche perplessità e disaffezione, talvolta noia e abbandono, perché in genere i fedeli, in qualsiasi parte del globo si trovino, pur con le diversità indotte dalle situazioni cultuali e linguistiche, vorrebbero assistere all’unica Messa della Chiesa cattolica. Soprattutto quando si è in presenza di abusi e di manipolazioni si finisce per far perdere la fede a molti. Come ha detto l’allora cardinale Ratzinger spesso sono state compiute deformazioni al limite del sopportabile.
Quali sono gli abusi liturgici più frequenti?
Frequente è l’affabulazione che affligge molti celebranti, per cui non c’è più solo il momento dell’omelia ma tante mini omelie che punteggiano la celebrazione. Questo finisce per togliere lo spazio al raccoglimento personale. Credo che questo tipo di frenesia affabulatoria dipenda dal convincimento in molti che se noi preti non spieghiamo le cose la gente non le comprende. Si ha una certa sfiducia che il rito in sé parli, che i suoi simboli, i suoi significati, le sue figure passino nelle persone. C’è come un eccesso di interposizione per cui alla fine più che diventare un rito sacro, liturgico, appunto sacramentale, diventa un’interminabile didascalia, naturalmente spesso spettacolarizzata anche da ulteriori apporti di quelli che sono stati chiamati gli attori della liturgia. Non a caso questo termine nella percezione della gente riguarda il mondo dello spettacolo. La Messa perde così il suo significato di mistero della passione e della risurrezione di Gesù Cristo, per diventare un intrattenimento che bisogna poi misurare quanto a gradimento. Ecco perché nella liturgia è stato introdotto l’applauso.
A che punto è la “riforma della riforma” voluta da Benedetto XVI?
Con questa espressione, che Ratzinger ha usato quando era ancora Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, egli intendeva dire che la riforma avviata dopo il Concilio doveva essere ripresa, e per certi versi corretta là dove, per usare sempre le sue parole, il restauro del dipinto aveva rischiato grosso, cioè nel tentativo di pulirlo si era corso il rischio di portare via anche i vari strati di colore. Egli ha avviato questo restauro attraverso un suo stile. Il Papa celebra la liturgia in modo sommesso, non gridato. Parimenti desidera che preghiere, canti e quant’altro non usino toni esibizionistici. E poi bisogna sottolineare due gesti particolari che nelle sue liturgie sono evidenti: aver interposto tra sé e l’assemblea la croce, a indicare che il rito liturgico non è rivolto al ministro sacerdotale ma a Cristo, e far ricevere la Comunione in ginocchio, a indicare che non si tratta di una cena nel senso mondano della parola, ma di una comunione al corpo di Gesù Cristo che viene però prima adorato, secondo le parole di Sant’Agostino, per poi essere mangiato.
Quanti ostacoli sta incontrando il Motu proprio Summorum Pontificum sulla messa preconciliare?
Credo che attualmente gli ostacoli diventino più flebili rispetto all’uscita del Motu proprio, nel 2007. Attraverso internet si può vedere come ci sia un discreto movimento di giovani che cerca, e per quanto è possibile pratica, la Messa tradizionale, chiamata anche Messa in latino o Messa di sempre. E questo credo che sia un segno molto importante da cogliere.
È chiaro che i pastori della Chiesa, in primo modo i vescovi e poi i parroci, pur affermando spesso che bisogna saper cogliere il segno dei tempi, espressione molto in uso dopo il Vaticano II, non riescono spesso a comprendere che i segni dei tempi non li stabiliscono loro, ma si presentano e soprattutto sono regolati dai giovani. Credo che questo sia il sintomo più interessante, perché se alla Messa tradizionale ci corressero gli anziani, gli adulti, si potrebbe anche avere il sospetto che si tratti di una nostalgia. Il fatto che siano prevalentemente i giovani quelli che cercano e partecipano alla Messa in latino è assolutamente inaspettato e però meriterebbe di essere letto, compreso e accompagnato soprattutto da parte dei vescovi.
Credo che il Papa abbia contezza di ciò e per questo intenda dare un ulteriore apporto attraverso un’istruzione applicativa del Motu proprio per aiutare tutti a comprendere che accanto alla nuova forma del rito romano c’è anche la forma antica o straordinaria.
Come è nata la sua amicizia con il cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI?
È un’amicizia che risale ai tempi iniziali del suo lavoro teologico e soprattutto quando è diventato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Mi hanno molto interessato i suoi studi, direi il suo navigare controcorrente, pur essendo egli un teologo progressista tra virgolette, come d’altronde siamo stati tutti noi giovani dopo il Concilio. Naturalmente man mano che ci si accorgeva che quanto si sperava progredisse in realtà diventava sempre più confuso, a volte contraddittorio al punto da far perdere i connotati dell’eredità cattolica, si è diventati più guardinghi. E in questo io ho potuto fruire senza merito della stima e della considerazione dell’allora cardinale che mi ha chiamato in Vaticano quale consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, e in seguito, anche di quella delle Cause dei Santi e dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, e mi ha nominato perito ai Sinodi dei Vescovi sull’Eucaristia del 2005 e sul Medio Oriente del 2010.
da "L'Avanti" del 4 marzo 2011