domenica 14 settembre 2014

"il contesto cattolico è in gran parte una specie di protestantesimo presieduto dal papa con qualche raro correttivo cattolico, sempre più residuale, in verità"

Le tradizioni ecclesiastiche, loro ruolo e conseguenza della loro abolizione pratica


Questo scritto segue, in qualche modo, quello precedente.

 Probabilmente ho già parlato attorno a questo tema. Nonostante ciò, lo voglio riprendere per approfondirne qualche aspetto. 

 Nello schema riportato nell’ultimo post e qui ripreso, ho puntualizzato che l’autorità fondativa (Gesù Cristo) è all’origine della Tradizione religiosa (cristiana). 

 Per Tradizione cristiana non si deve solo intendere quanto ci giunge dalla rivelazione scritta (il Nuovo Testamento) ma il modo d’interpretare e di vivere la Scrittura.  

 È esattamente questo modo d’interpretarla e di viverla che ripara la Rivelazione scritta ad ogni genere d’arbitrio e di soggettivistica interpretazione. 

 È esattamente questo modo d’interpretarla e di viverla che realizza la comunione ecclesiastica dimodoché un ambito ecclesiastico inizia a divenire scismatico dalla Chiesa nel preciso momento in cui cambia sostanzialmente il suo modo d’interpretare e vivere la Tradizione. 

 È sempre questo modo d’interpretarla e viverla a comporre la cosiddetta “esperienza cristiana”. 

 L’ “esperienza cristiana” non è, dunque, il risultato di un soggettivismo capriccioso, qualcosa di meramente psicologico (o psicologistico) ma qualcosa nella quale si conosce e riconosce lo stile (l’ ethos) di Cristo che si distacca da un piano puramente umanistico. 


 L’Apostolo Giovanni lo esprime in questo modo: “Quel che era dal principio, quel che abbiamo udito, quel che abbiamo visto con i nostri occhi, quel che abbiamo contemplato e che le nostre mani hanno toccato del Verbo della Vita” (1 Gv 1, 1). 

 Chi viene dopo gli apostoli, non avendo un contatto fisico diretto con il “Verbo della Vita”, ne riceve la mentalità (e la grazia) dalla Chiesa nel modo che segue. 

 Le autorità non fondative (i vescovi), dopo aver conosciuto e vissuto la Tradizione ricevuta dagli apostoli hanno fondato delle tradizioni ecclesiastiche in grado di custodire e supportare la Tradizione trasmessa da Cristo. In questo preciso senso le tradizioni riportano alla Tradizione: “Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare” (Ef 2, 20). 

 La Liturgia cristiana si pone su questo preciso livello: si nutre della Tradizione, ne trasmette lo spirito e, allo stesso tempo, veicola la Tradizione stessa. Per loro natura le tradizioni ecclesiastiche tendono ad essere possibilmente intangibili, proprio perché si riferiscono alla Tradizione che di suo è intangibile: “Nessuno può porre un fondamento diverso da Gesù Cristo” (1 Cor 3, 11). 

 Di conseguenza una liturgia finisce normalmente per fissarsi, assumere un’identità stabile che non è lecito modificare. 

 C’è però da aggiungere qualche precisazione. 

 Il riferirsi continuo delle tradizioni alla Tradizione non è sempre scontato e neppure automatico.  

 Mi spiego: non è sempre detto che delle tradizioni ecclesiastiche, o una liturgia particolare, riflettano in modo fedele lo spirito della Tradizione. Lungo la storia non poche volte gli uomini hanno eretto un muro opaco tra loro e la Tradizione, interpretandola in modo distorto o parziale. Quest’interpretazione ha creato anche nella liturgia elementi erronei. Si pensi, tanto per citare un esempio, agli inni composti dagli ariani nel IV sec. Erano senza dubbio delle composizioni ecclesiastiche che non riflettevano il Credo della Chiesa, la profonda coscienza ecclesiale su Cristo. 

 A volte basta assai poco perché il contesto ecclesiastico si oscuri e non riesca più ad essere un efficace rimando alla Tradizione trasmessa da Cristo.  

 Per impedire una tal evenienza, l’Oriente cristiano ha sempre sottolineato l’estrema importanza della funzione del monachesimo nella Chiesa. Il monachesimo non è altro che una famiglia di laici i quali vivono in modo intenso la fede cristiana fino al punto da conoscerne per esperienza gli aspetti più reconditi e mistici. 

 Infatti per accostarsi alla fede cristiana ed entrare nella sua intimità non è solo necessario studiarla e viverla genericamente. È necessario scalare le ardue vette dell’ascesi. È questo che forma i “puri di cuore che vedranno Dio” (Mt 5, 8), come ricordano le Beatitudini. Questi “puri di cuore” sono i veri teologi della Chiesa, i veri “specialisti” della teologia, i riferimenti della Chiesa. I teologi, dunque, non sono dei semplici studiosi ma i conoscitori sapienziali e mistici del Cristianesimo. Ed ecco la funzione dei monaci, appunto o, detto più precisamente, dei santi. Questa funzione agisce da profondo ancoraggio per la Chiesa, impedendole di vagare inquieta, a seconda dei gusti e delle mode. Ne consegue che chi vuole cambiare la Chiesa, disancorarla, basta che cambi, anemizzi o castri il monachesimo! 

 Non è infatti un caso che proprio dal monachesimo venissero le resistenze più forti alle modifiche unilaterali o secolarizzanti della liturgia. Si pensi alla lotta monastica contro l’iconoclastia (la soppressione del culto delle immagini), alle persecuzioni, ai martirii e agli esili che i monaci in Oriente dovettero subire per la loro testimonianza che, a lungo andare, ristabilì l’Ortodossia della fede. 

 I monaci erano un luogo privilegiato della teologia al punto che in tutti i concili celebrati nel primo millennio, erano sempre rappresentati da una nutrita delegazione (*). Costoro non stavano nei concili o nei sinodi per bella figura, tant’è che, in Occidente, san Massimo il Confessore, partecipò attivamente ad un sinodo romano contro il monotelitismo componendo alcuni testi dogmatici. 

 Che successe in seguito?
In Occidente la teologia s’intellettualizzò sempre più isolandosi dalla vita ascetica. Quest’opera d’intellettualizzazione non riguarda tanto le grandi scuole teologiche, sorte su impulso dell’Aquinate il quale aveva presente certi limiti da non superare, ma quelle attorno agli epigoni della Scolastica. 

 In pieno XV secolo la teologia occidentale decadde in una pletora d’analisi filosofiche sempre più fine se stesse, arzigogolata in autocompiacenti “bizantinismi”. Poco più tardi questa teologia riceverà gli strali ironici di un Erasmo da Rotterdam il quale, a ben ragione, ne evidenziava gli aspetti più ridicoli.
La vita monastica, nel medesimo torno di tempo, era già decaduta da qualche secolo: san Francesco non riuscì a riportare il monachesimo al centro della vita della Chiesa, come avrebbe inizialmente voluto. In questo modo al “magistero della santità monastica” (al quale appartiene pure un san Gregorio Magno, tanto per dare un riferimento) si sostituì un magistero semplicemente ecclesiastico, di derivazione intellettuale. 

 La tradizione liturgica non poté non riflettere tal clima formale. Divenne il campo delle più fantasiose interpretazioni allegoriche. 

 Alle soglie dell’età moderna ci troviamo, così, con un Cristianesimo che – di fatto – è decurtato e vive di un respiro limitato. Non meraviglia che in questo contesto di crisi sia maturato un uomo che segnerà per sempre i destini di una parte del Cristianesimo Occidentale: Martin Lutero.
  Lutero, monaco agostiniano, era dotato di una sensibilità non comune e di un bagaglio culturale che, per i tempi, non era certo irrilevante. Nonostante ciò non riuscì a dare un senso profondo alle tradizioni cristiane del suo tempo proprio perché, nel frattempo, nella teologia si erano affastellate tutta una serie d’interpretazioni oziose e francamente inutili e la prassi era tutt’altro che incoraggiante. Furono queste cose ad inquietare  Lutero e a spingerlo ad un'analisi le cui conseguenze furono impreviste pure per lui stesso. 

 Con la riforma luterana (che per il religioso sassone voleva semplicemente essere la riforma di tutta la Chiesa) si operò una scelta estrema: il rifiuto di gran parte delle tradizioni ecclesiastiche e la loro sostituzione con l’interpretazione individuale della sacra Scrittura. Il riformatore non si avvide, però, che in questo modo si rendeva simile a chi, constata la ruggine in alcune tubature dell’acqua, non ne sostituisce le parti corrose ma le toglie tutte per affidarsi ad un secchio più o meno bucato con il quale, ogni volta, prende dell’acqua da una cisterna. 

 Con questa soluzione si riuscirà a portare dell’acqua in casa? Ammesso che vi si riesca che genere d’acqua arriverà se, magari, il secchio oltre ad essere mezzo rotto è pure sporco? 

 Non c'è dubbio che la "soluzione" luterana fu disperata ma la disperazione non è una scusante o un'attenuante per le scelte erronee.  

 Al Cristianesimo protestante si può applicare generalmente il paragone appena fatto per cui la cura che la Riforma cercò di trovare, finì per divenire peggio del male che aveva analizzato. Le conseguenze non tardarono ad arrivare: la spaccatura del Cristianesimo riformato in infinite divisioni in disaccordo tra loro. 

 Il Cattolicesimo per 500 anni dallo scoppio della riforma luterana ebbe una storia particolare. S’irrigidì come un corpo in un busto, applicando le sanzioni più severe nei riguardi dei “liberi pensatori” religiosi. La gerarchia aveva ricevuto una seria batosta da Martin Lutero ed era terrorizzata di perdere ulteriore terreno. Di qui la sua inappellabile severità.

  Il Protestantesimo abolendo le tradizioni religiose, rese di fatto utopistica la Tradizione di Cristo al punto che Rudolf Bultmann (†1976), teologo protestante, giunse a separare rigorosamente il Cristo della storia (irraggiungibile, il cui messaggio evangelico è storicamente assai dubbioso) dal Cristo della fede (vissuto soggettivamente in ognuno, al punto che il messaggio evangelico, non provenendo direttamente da Cristo, nasce solo con le prime comunità cristiane). 

 Il Cattolicesimo postridentino, d’altro canto, legò alla Chiesa i suoi fedeli sotto pena di scomunica e di peccato mortale. Tanto il Protestantesimo sottolineava il ruolo e l’importanza dell’individuo nell’interpretazione biblica (priva dunque della mediazione della tradizione ecclesiastica), tanto il Cattolicesimo tridentino sottolineava l’importanza della Chiesa nello stabilire l’oggettività dell’interpretazione biblica. Al singolo non restava che dare piena fiducia. 

 Nel contesto tridentino la tradizione ecclesiastica era vista prevalentemente come un insieme di rigidi norme a cui obbedire ciecamente senza cercare necessariamente un senso spirituale (e con la maggior diffidenza possibile nei riguardi dei mistici). Nonostante questa cappa di terrore - nello Stato Pontificio era previsto perfino il carcere per chi non si recava a Messa la domenica -, fiorirono non pochi casi di esempi cristiani.
  Ma i tempi erano destinati a cambiare. Con l’epoca dei Lumi e soprattutto nel XIX secolo, progredì un vero e proprio senso d’insofferenza verso lo stile impositivo della Chiesa, un’insofferenza maturata dapprima nel laicato e in seguito nel clero. 

 La gerarchia cattolica cercò di resistere a chi voleva demolire porte e cancelli a protezione della fede, ammorbidendo le leggi ecclesiastiche o semplicemente aprendo la Chiesa allo spirito del secolo, come si auspicavano alcuni che prendevano il nome di "modernisti" tra cui Alfred Loisy (**). Morte le generazioni antiche e avanzando quelle che compresero e, in un certo senso, fecero propria quest’insofferenza, il clima cambiò e le porte iniziarono a socchiudersi. Giovanni XXIII, che in gioventù fu sfiorato dalle idee moderniste, finì per incarnare moderatamente tale insofferenza. 

 Così, dopo Pio XII la svolta ci fu e fu repentina sia nel Concilio Vaticano II, sia a seguito di esso fino al punto che i portoni furono divelti. Al rigidismo tridentino seguì un vero e proprio lassismo che perdura ancor oggi. 

 Il famoso concilio, perciò, rappresentò la rivoluzione religiosa da lungo attesa. In essa non solo fu soppressa la mentalità rigidamente legale con la quale il Cattolicesimo si reggeva fino ad allora ma avvenne molto di più: fu posta la parola “fine” al proprio passato, voltando le spalle anche a quanto di positivo in esso continuava ad esistere. Fu questa la vera rivoluzione. A nulla valgono le opinioni contrarie di chi, come certi "normalisti" continuano ad asserire che tutto ciò non fu voluto dal Concilio e che, a dispetto di certe evidenze, esiste una continuità con il passato. Affermazione davvero patetica questa, poiché contra factum non valet argumentum, e di fatti da 50 anni in qua se ne sono visti a bizzeffe. 

 Non è un caso che in quest’assise il Cattolicesimo non volle più lanciare condanne, stabilire delle rigide leggi, sottolineare i confini tra la verità oggettiva (come si amava dire fino a poco prima) e gli errori soggettivi. 

 5 Secoli di rigide imposizioni avevano creato una viscerale antipatia verso quanto si riteneva tradizionale, in primis negli stessi chierici. 

 Ma non fu solo questione d’essere più gentili con la modernità. Dopo quest’assise nel mondo cattolico si aprirono i “vasi di Pandora”, si liberarono delle energie represse che si concretizzarono in una rapida corsa verso le posizioni del Protestantesimo liberale non senza una profonda simpatia per il mondo secolare.  

 I primi papi postconciliari, pur avendo nutrito quest’ingenuo slancio, rimasero attoniti per le sue logiche e inquietanti conseguenze poiché evidentemente non avevano capito che genere d’energie avevano liberato. Stabilirono qualche freno. Oggi sembra che pure tali freni siano saltati. 

 Quali sono le conseguenze per quanto riguarda la nostra analisi? 

 Soprattutto uno: il significato della tradizione ecclesiastica è ulteriormente cambiato.  

 Nel periodo tridentino coincideva con la prassi della Chiesa, il magistero normativo e la legge ecclesiastica, ritenuta per sempre intangibile. Oggi non solo si nota una profonda avversione e disprezzo clericale per la storia religiosa immediatamente precedente al Concilio Vaticano II (tradizioni ecclesiastiche incluse), ma si constata  una variazione sostanziale della tradizione ridotta di fatto a semplice opinione stabilita da questo o quel papa, da questo o quel vescovo, opinione che può anche cambiare radicalmente, se i tempi lo richiedono. Non pare che ci si chieda se questo tipo di “magistero fluido” rappresenta o no un ostacolo per vivere la Scrittura e incontrare veramente Cristo. 

 Si pensa che l’opinione magisteriale sia automaticamente la migliore lettura e interpretazione al vangelo nell’attuale epoca, nonostante in tal magistero non sia difficile riscontrare una sempre maggiore mentalità secolare che lo rende avulso da una prospettiva trascendente. L’opinione magisteriale è quindi soggetta a cambiare o, come si dice talora, ad evolvere. Ci si conforta pensando che l’evoluzione dell’opinione religiosa e del magistero sia un segno di “vita” e un “dono dello Spirito” alla Chiesa! 

 E' tutt'altra storia se ci si volge in Oriente dove si ama dire che solo chi purifica asceticamente la propria interiorità può capire bene la tradizione ecclesiastica autentica (non soggetta a rivolgimenti o ripensamenti!). Questo significa che non si devono solo vivere i comandamenti e i precetti della Chiesa ma si dev’essere molto maturi e progrediti, spiritualmente parlando. Solo salendo a livello di chi ha stabilito delle tradizioni affidabili, si può finalmente capire la ragione per cui esse furono stabilite. Un uomo così è in profonda comunione con tutto il passato della Chiesa e legge profeticamente il suo presente alla luce d’immutabili valori evangelici. 

 In Occidente tutto questo non ha realmente alcuna importanza (ateismo pratico) non solo perché la spiritualità e l’ascesi si è ridotta al lumicino ma perché la si ritiene buona solo per qualche originale persona che si isola dalla società (il che non è quasi mai visto positivamente). Qui il dogma può non essere più combattuto, semplicemente perché non gli si riconosce alcun effetto pratico. Lo si lascia in disparte e di fatto si fa a meno di esso. E' una “filosofia” d'altri tempi! 

 Che rimane della tradizione ecclesiastica? 

 Sinceramente parlando, credo che oramai ne rimangano brandelli poiché il contesto cattolico è in gran parte una specie di protestantesimo presieduto dal papa con qualche raro correttivo cattolico, sempre più residuale, in verità. 

 I tentativi di tornare a dare un po' di dottrina al mondo cattolico, da parte di Joseph Ratzinger, sono miseramente naufragati perché non potevano trovare aggancio alcuno nella maggioranza del Cattolicesimo, oramai refrattario ad ogni genere di discorso tradizionale. Le sue dimissioni da papa sono la prova più lampante di tutto ciò, esattamente come lo furono le dimissioni del famoso arcivescovo Marcel Lefebvre dalla presidenza dei religiosi spiritani, quando questi ultimi erano in piena rivoluzione e non lo obbedivano più, verso la fine degli anni sessanta. Oggi, a maggior ragione "l'obbedienza non è più una virtù" e questo crea un caos senza fine (***). 

 In questi ultimi tempi la corsa verso la protestantizzazione (ossia verso un cristianesimo puramente sociologico) si è ulteriormente accelerata. Chiunque bene informato non può non notarlo, analizzando pure lo stranissimo insegnamento dell’attuale papa, più attento a piacere al popolino che a confermare i credenti nei capisaldi della fede. 

 Questo spiega la distanza sempre maggiore tra chi ha mantenuto i riferimenti tradizionali (questo blog cerca d’indicarli) e chi oramai tende ad essere come una zattera alla deriva, religiosamente parlando. 

 Si deve ricordare, però, che non può esistere alcun Cristianesimo reale senza la Tradizione e senza le autentiche tradizioni ecclesiastiche che lo veicolano e che uniscono tra loro Tradizione e credente. 

 Se si prescinde da ciò, alla fine, si creerà una “maschera”, una scimmiottatura di Cristianesimo. Questo neo-cristianesimo potrà magari essere simile ad una scatola coloratissima e risulterà simpaticissimo al mondo perché gli darà ragione in tutto. In questa scatola, però, non sarà rimasto più niente.

Note
(*) 
 Non così avviene nel mondo cristiano latino. Non ripeterò mai a sufficienza che la centralità della vita monastica nella Chiesa in Occidente non è affatto essenziale proprio perché la teologia tende ad essere ridotta a riflessione, a pensiero e non discende necessariamente da un cammino ascetico di comunione con Dio (teologia patristica). D'altra parte lo stesso monachesimo occidentale ha accettato di buon grado di porsi in un angolo, come gli indiani d'America nella loro riserva e se ne sta lì buono buono, dimentico che è fatto per testimoniare la verità cristiana fino all'effusione del sangue, se necessario. D'altra parte la spiritualità con la quale dovrebbe essere animato, tende ad abbassarsi a livello di conforto psicologico, non di propedeutica per una salita spirituale nella quale si giunge ad una conoscenza più nitida della propria fede il che porta necessariamente ad una lotta, se necessario. Aver isolato nella Chiesa delle funzioni essenziali (separando spiritualità da dogma) è uno dei più gravi problemi dell'Occidente cristiano, terreno di coltura per tutte le disgrazie attuali. La corsa finale di queste alterazioni è la necrosi del corpo ecclesiale.

  (**) Ecco un esempio di come allora si vedevano le cose e di come si cercò di reagire: “Quando chiedo ai sapienti di questo tempo quale sia la più grande piaga dell’attuale società, sento rispondere ovunque che è l'indebolimento dei caratteri, l'ammorbidimento delle anime. La terra è afflitta da una grande desolazione perché non ci sono più dei battezzati che si ricordano come si dovrebbe del proprio battesimo, coscienza della grandezza e delle energie del proprio battesimo. No, con le dottrine dimezzate e le verità diminuite non si otterrà che dei mezzi cristiani. E con dei mezzi cristiani né la società religiosa, né la società civile avranno mai ragione sul tremendo nemico”. Card. Pie di Poitiers (1815-1880).
 

 Parole più che profetiche, ad osservare cos'è successo 150 anni dopo, e la tendenza al ribasso è in costante progresso con l'aiuto pure del clero il quale non predica più delle mezze verità ma evita direttamente le verità!

(***) Don Franco Barbero, prete canonicamente "ridotto" allo stato laicale non è che la punta di un iceberg che, con estrema franchezza, ammette quanto segue: "L'obbedienza non solo non è più una virtù, ma costituisce una grave patologia dell'anima che ingabbia la vita e spegne la comunità. Certo, la disobbedienza evangelica ha i suoi costi e i suoi rischi, ma crescere nel cammino della libertà ci fa gustare anche le più invitanti gioie del convito umano e comunitario. Occorre scegliere tra una chiesa di minorenni e una comunità di donne e di uomini che tentano l'arduo sentiero della libertà". http://donfrancobarbero.blogspot.it/2007/12/patologie-dellobbedienza.html
È un pensiero che, anche se non confessato così apertamente, moltissimo clero oramai pratica. Di qui l'ingovernabilità sempre maggiore del mondo cattolico.

Testo originaletratto da: