lunedì 8 ottobre 2012

"Che se pure si vuole conservato il culto esterno secondo i placiti del simbolismo modernista, esso è ridotto a un'ombra, a un cadavere di culto, senza spirito nè vita, o più veramente a una forma d'impostura"

La Civiltà Cattolica, anno 59°, vol. 4 (fasc. 1401, 29 ottobre 1908), Roma 1908, pag. 288-301.

tratto da: http://progettobarruel.zxq.net/novita/11/modernismo_riformista.html

IL MODERNISMO RIFORMISTA

L'eretico - che è l'anarchico dell'ordine religioso e morale - insorge volentieri, come l'anarchico politico e sociale, a nome di qualche idea, o piuttosto di qualche parola sublime, particolarmente al suono grandioso di rinnovazione, di progresso, di riforma. Solo, quando dalle altezze della speculazione scende alle enormezze dell'applicazione, alla pratica, egli si scopre qual'è di fatto: sotto il manto del riformatore ardimentoso un abbietto e orgoglioso pervertitore. Tutta la storia dei secoli cristiani è piena di questo fatto: e il fatto, del resto, ha la sua radice nell'istinto, già sovente denunziato, dell'errore e del vizio, che è di trasfigurarsi nelle sembianze della verità e della virtù. È quindi sommamente benemerito chi strappandogli la maschera a tempo, ne mette a nudo la laida figura, prima che la simulazione gli abbia procacciato credito e potenza a danno della religione e della morale, della Chiesa e della società. Ora ciò è avvenuto al modernismo, grazie sopra tutto alla vigorosa enciclica Pascendi: esso apparve nella sua vergognosa nudità, non saggio riformatore, quale si vanta, ma distruttore insipiente, ma pervertitore. E tale dobbiamo ora mostrarlo anche noi, brevemente, su le tracce dell'enciclica, per conchiudere, con questa rapida occhiata, la nostra già troppo lunga trattazione del modernismo.

I.

Ma innanzi tratto avvertiamo - per dissipare un equivoco, futile ma assai comodo ai modernisti e però troppo abusato - avvertiamo che non dicesi il modernismo pervertitore e distruttore per ciò solo che denunzi abusi o dimandi riforme, tutt'altro: sarebbe questo anzi un gran merito di sincerità e di zelo, ove si facesse debitamente, come fu proprio sempre delle anime nobili, disinteressate e sante. Infatti o per abuso s'intende più propriamente l'uso disordinato di alcun potere o diritto legittimo, ovvero più largamente vi si comprende qualsiasi specie di disordine, di inconveniente, di difetto. Ora nell'un senso e nell'altro è troppo chiaro che l'abuso non può mancare mai, a lungo andare, d'insinuarsi per qualche parte in qualsiasi opera, società o istituzione di creature razionali e libere, ma insieme manchevoli e finite. Il denunziarlo dunque in modo convenevole e più l'adoperarsi a rimuoverlo è opera onesta: spesso è difficile, talvolta delicata, ma sempre necessaria. E questa è l'opera del riformatore.
Nè l'opera, pertanto, di riforma è propria dell'età nostra, nè di questa o quella età: è di tutti i tempi. Nè vale solo per questa o quella condizione di società o di vita, ma è necessità, è legge, è quasi di essenza, della vita stessa umana, sia individuale o sociale. Più, la riforma è legge e condizione di progresso nelle cose tutte soggette a mutabilità o di scadimento o d'incremento: quindi riforma di studii e di idee nella vita scientifica, riforma di costumi e di leggi nella vita morale dell'individuo e della società, e via dicendo. Più ancora; per salire alla ragione ultima e profonda, questa legge o condizione della vita è ineluttabile e perpetua, siccome conseguenza intrinseca e necessaria della defettibilità per una parte, e per l'altra della perfettibilità dell'uomo e di quanto è soggetto all'uomo quaggiù. Dall'essere, cioè, defettibile viene che la creatura può scadere a mano a mano dalla sua nativa perfezione; dall'essere perfettibile segue che può essere ricondotta alla perfezione antica, che è quanto dire, riformata. La defettibilità fa l'uomo bisognoso; la perfettibilità lo fa capace di progresso, di emendazione o di riforma. Poichè, rispetto a ciò, è assioma ben vecchio nella vita dello spirito, che lo stesso non progredi retrogredi est.
Nè perchè facciano parte della Chiesa gli uomini, siano semplici fedeli, siano pastori, perdono punto o l'una o l'altra proprietà loro intrinseca, onde vanno soggetti ad abusi o certo a deficienze, e restano quindi bisognosi sempre ed insieme sempre capaci di perfezionamento o di riforme. Ma questo elemento umano, così mutevole ed imperfetto, che va unito all'elemento divino, costante e immutabile nella Chiesa, non va però mai con esso confuso, nè mai lo altera per abusi nè per riforme lo modifica, bensì mantenendolo fra abusi e riforme immutato, ne comprova col fatto stesso della sua storia la natura e l'origine diversa, cioè divina.
Ora nel confondere l'uno e l'altro elemento pecca anzitutto il modernismo riformista: esso chiama crisi della Chiesa, abusi e disordini della Chiesa quelli che sono nella Chiesa; e con ciò perverte il concetto della Chiesa stessa e ne rinnega l'origine e la vitalità divina, attribuendo a lei, alla sua essenza, al suo governo o costituzione essenziale gli abusi che sono proprii dei suoi membri infermi, con la conseguente necessità delle riforme. La Chiesa, in quanto società divina, quale uscì dalle mani di Cristo fondatore, non ha nè può avere macchia nè ruga nè altra imperfezione siffatta. Con lei è Cristo, maestro e autore della santità, fino alla consumazione dei secoli; e Cristo la preserva dalla corruzione della colpa come dal traviamento dell'errore, e così intatta egli la guida, fra la pestilenza del secolo e le torbide vicende della storia, serbandola sempre giovine e fiorente per le sponsalizie eterne.
Quindi pure il corpo intero della Chiesa non è, nè può dirsi mai contaminato da abusi, nè che mai li approvi o li fomenti. Perchè, siccome scriveva al nostro proposito S. Agostino, «la Chiesa di Dio, così posta fra molta paglia e molta zizzania, molte cose tollera; ma quelle che sono contro la fede o la vita buona non approva, nè tace, nè fa» [1].
A tale distinzione, elementare ma vitalissima, non ponendo mente il modernista, e talora anzi positivamente irridendola, egli si accosta, o peggio entra innanzi, agli eretici tutti dei secoli andati, nominatamente al protestante della pseudo-riforma del secolo decimosesto, al giansenista del decimosettimo, al filosofo e libertino del decimottavo, al liberale del decimonono. Tutti costoro infatti sono concordi a gridar tralignata la Chiesa per gli abusi di alcuni suoi figli, bisognosa quindi d'essere svecchiata o riformata a loro capriccio sotto l'uno o l'altro pretesto; sebbene per alcuni il pretesto è la necessità di ricondurla indietro alla semplicità dei primi secoli, alla sublime povertà delle catacombe - e il maligno aggiunge con sarcasmo, alla paglia di Betlem - per altri è il bisogno di sospingerla innanzi, a seconda della corrente impetuosa dei tempi, di ringiovanirla nella freschezza perenne del progresso; perchè, fatta piacente al secolo, stringa con lui il nuovo connubio.
Fra questo doppio intento ondeggiano appunto i seguaci del modernismo riformista; e se discordano tra loro, ciò è solo nell'apparenza o in qualche proposito secondario: il principio onde muovono ad accusare la Chiesa stessa per gli abusi veri o supposti di alcuni suoi figli, è uno in tutti: lo spirito del mondo e il disamore della Chiesa. Quindi uno è pure in tutti l'esito finale: il pervertimento, non la riforma.

II.

E ciò appare altresì, con troppo trista evidenza, dallo strano contegno e dal modo con cui questi nuovi falsi riformatori, a somiglianza degli antichi, si fanno denunziatori di scandali e di abusi. Qui parliamo di cose a tutti note, in Italia e fuori di Italia: e senza che noi li ripetiamo ne ricorrono alla mente di ognuno gli autori. Come quelli antichi, così questi moderni o inventano o aggravano o propalano ingiustamente; come quelli antichi, appaiono quasi invasati da una smania, da una frenesia morbosa di calunnia, di esagerazione, di pettegolezzo. E questa frenesia mette lingua in ogni cosa; ogni cosa maledice o deprime, nè ha riguardo a persona, se non sia modernista o in qualche modo anticattolica; e che è peggio, scambia le ombre con la realtà, dà come veri fatti i sogni delle stravolte immaginazioni e i macchinamenti degli animi inveleniti, o infine sopra una tenuissima trama di verità viene ricamando tutta una tela fantastica di accuse, d'insinuazioni, di esagerazioni, insomma d'ingiustissime denunzie; le quali poi, ingrossate sformatamente, va propalando contro ogni ragione di giustizia, nonchè di carità e di convenienza. Tutto ciò a nome della sincerità e della lealtà; di cui si attribuiscono essi il vanto e per poco il monopolio. Ma noi qui diremo solo con ogni mitezza ciò che si scriveva, già, oltre un secolo fa, dei modernisti d'allora, del pari smaniosi di propalare scandali ed abusi:
«Può darsi che questa specie di mania sia zelo: ma può darsi altresì che sia avversione ed amor proprio. S'ella è zelo, dee trar la sua origine da un cuor retto, deve accompagnarsi colla carità e colla imparzialità. In tal caso non si udranno fremere le nostre labbra, quando ci verrà occasione di parlare dei disordini del clero, non si tingeranno di sangue i nostri occhi, non cercheremo compagni nelle nostre impetuose declamazioni, e non crederemo troppo volentieri a tutto quello che ci si racconta di tali disordini. Ma s'ella poi è avversione e amor proprio, le invettive si affolleranno con disordine su le nostre labbra, volgeremo le spalle a chiunque osi difendere la fama del clero, e si proverà una segreta compiacenza de' suoi mali e delle sue sventure. Gli Ebrei, i Turchi, gli eretici saranno nostri teneri fratelli, perchè non mettono nessun ostacolo alle nostre passioni, e perchè con noi accoppiano la lingua a maledire i preti e i claustrali», ecc..
Così scriveva il dotto e pio Alfonso Muzzarelli [2], all'entrare del secolo passato, e le sue parole sembrano di ieri: tanto bene si applicano ai modernisti; se non che questi ai teneri fratelli, nominati sopra, aggiungono atei, socialisti, massoni ed ogni simile generazione di nemici della Chiesa e con loro accoppiano la lingua a maledire non solo il clero, ma ciò che vi è di più sacro e reverendo nel magistero, nel culto, nel governo, nella morale in ogni cosa.
Nè occorre che andiamo qui in citazioni: sono bene, per via di esempio, alla memoria di tutti le maldicenze del «Santo» modernista e dei suoi devoti: «la Chiesa contrasta la ricerca della verità»... la Chiesa «incatena e soffoca tutto che dentro di lei vive giovanilmente»... la Chiesa «è ostile a chi vuole contendere ai nemici di Cristo la direzione del progresso sociale»... Peggio ancora - assai peggio di ciò che bestemmiavano i giansenisti - la Chiesa è inferma, se non moribonda addirittura, come altri la vogliono: quattro spiriti maligni «sono entrati nel suo corpo per farvi guerra allo Spirito Santo» e sono spirito di menzogna, spirito di dominazione del clero, spirito di avarizia, spirito d'immobilità. E quasi tanto non bastasse, un'altra gran piaga si aggiunge: il «difetto di coraggio morale» ; onde «piuttosto di mettersi in conflitto coi superiori, ci si mette in conflitto con Dio...» ; e con questo un cumulo di altri disordini e abusi.
Ma notisi che qui, come altrove, lo scrittore, degno di miglior soggetto, è un'eco semplice delle declamazioni appassionate di uomini ambiziosi e frivoli, i quali da anni, da oltre un decennio, venivano riempiendo di simili brutture le colonne dei loro giornali e periodici, quale, ad es., la Cultura Sociale, abusando della longanime tolleranza dei calunniati e dell'autorità stessa della Chiesa. Su quelle colonne, per darne un saggio, si poteva scrivere (agosto 1905) che «dall'epoca della Santa Alleanza... la nostra vita pubblica è stata e continua ad essere una grande menzogna, diretta contro gli interessi degli umili, del popolo, della verità e della giustizia, e contro il contenuto sociale del cristianesimo, soffocato dalle parvenze della reazione»! Così un maestro di vita pubblica modernista, che sogna l'alleanza col socialismo ateo. E altre insolenze non meno belle si avventavano periodicamente contro gli abusi della vita privata dei cattolici, e in genere di tutta la vita religiosa, dallo stesso maestro di modernismo riformista, il quale riserbava invece mille carezzevoli blandizie pei «teneri fratelli», nemici di Dio e di ogni religione.
Del resto, su tali insipienze dei riformisti nuovi non occorre più oltre insistere: essi vi si mostrano da se stessi, nell'abbiettezza del linguaggio, col marchio vecchio degli pseudo-riformatori, cioè dire distruttori insipienti e pervertitori.

III

Ma più assai ci si mostrano tali, quando per far riparo agli abusi veri o falsi, che essi denunziano così malamente, ci vengono a mettere innanzi le loro grandiose proposte di riforma. Di esse, come di punto più vitale per la questione di principio, parla energicamente l'enciclica, e ne descrive bene al vivo, ciò che andiamo dicendo, come le rovine si moltiplicano sotto i colpi del modernismo riformatore.
Questo infatti, più che il liberalismo, mira al cuore: vuole riformata anzi tutto la dottrina; quindi riformata la formazione filosofica e teologica delle giovani speranze della Chiesa, con la soppressione della filosofia scolastica e della teologia razionale; indi riformata l'istruzione dei fedeli, con la soppressione o mutazione radicale del catechismo, divenuto secondo alcuni «un trattatello sibillino di scolastica». Appresso, e logicamente, vuole riformato il culto, segnatamente con la diminuzione arbitraria o la soppressione delle divozioni esterne. Quindi pure riformato il governo e la costituzione ecclesiastica, massimamente per la parte disciplinare e dogmatica, introducendovi più largamente il clero inferiore ed il laicato, e diminuendo l'eccessivo accentramento dell'autorità; riformati gli organi dell'autorità che sono le congregazioni romane, particolarmente quelle più incommode del S. Officio e dell'Indice; riformato l'atteggiamento dell'autorità stessa nelle questioni politiche e sociali. Infine vuole riformata la morale, e quindi la vita tutta del popolo cristiano, singolarmente con dare prevalenza. alle virtù attive su le così dette passive; e con ciò altresì riformato il clero, riconducendolo all'antica povertà, ma insieme alla nuova libertà del modernismo, la quale, secondo certuni, vorrebbe anche soppresso il celibato; riformata insomma ogni cosa, salvo la vita degli stessi nuovi riformatori. Così la loro smania d'innovazione, come parla l'enciclica, «ha per oggetto quanto vi è nel cattolicismo».
E in tutte le proposte siffatte e in altre poco meno esiziali, i riformisti nuovi procedono rapidi, risoluti. Scoperto, o così creduto, l'abuso, hanno in pronto il rimedio: mettere mano alla radice, e di un colpo reciderla. Nè la radice, secondo essi, è la defettibilità o la colpa dell'individuo: è l'autorità stessa, il potere o il diritto, del quale si fa o si può fare abuso; è il soggetto, è l'istituzione in cui l'abuso stesso appare. Quindi attenuano essi o rigettano al tutto la legittimità dell'esistenza di quella istituzione, autorità o potere, del quale vedono o credono di vedere l'abuso; e procedendo conseguenti ai principii vogliono reciso di un tratto e distrutto, ovunque si trovi, il soggetto degli abusi, degli inconvenienti dei difetti, che loro dispiacciano.
Così è soggetto di abuso o d'inconvenienti l'istituzione rigidamente scolastica; è troppa austera, è ostica all'anemia intellettuale moderna: dunque si sopprima. È soggetto di abuso o d'inconveniente l'istruzione popolare, strettamente catechistica; è troppo arida, è dura per la frivolezza delle menti contemporanee: dunque si abolisca. E dopo ciò, alla scolastica gretta si sostituisca la positiva «evoluzionistica»; alla catechetica pedestre la conferenza «alata». Similmente è, o pare, soggetto di abuso il culto esterno; molte sue manifestazioni contrastano alla delicatezza dei tempi nostri: dunque si deprima, si sminuisca fino a ridurlo ai minimi termini; e alla «religione esteriore» sottentri la «religione interiore», la religione dello spirito, senza troppo impaccio di dogmi, di formule, di riti.
Lo stesso dicasi per quanto riguarda l'amministrazione e il governo, i decreti dell'autorità e dei suoi organi autentici, le congregazioni romane e i loro ordinamenti, le istituzioni religiose e i loro indirizzi, gli obblighi del popolo e quelli del clero: si corre alla negazione, si grida all'abolizione o alla trasformazione di quanto mostri qualche lato manchevole, qualche abuso.

IV.

Ora questo procedere così spedito dei modernisti, a recidere ed abolire il soggetto per riformarvi l'abuso vero o supposto che sia, muove da un principio assurdo, da un sofisma. Per quel sofisma cioè che i logici chiamano fallacia dell'accidente, attribuiscono essi alla natura della cosa quello che le conviene solo in modo contingente e variabile, come sarebbe a dire, per caso o per abuso, per insipienza o per malizia dell'uomo. Ovvero per un altro sofisma simile al precedente - il sofisma della falsità di causa (non causa pro causa) - imputano, quasi a cagione propria al soggetto o alla cosa in sè, come all'autorità, alla legge, al metodo, l'effetto dell'abuso, per una semplice ragione di concomitanza, di successione o simile, che vi appaia, come sarebbe perchè l'effetto dell'abuso l'accompagna o lo segue in qualche caso particolare, o, poniamo anche, in molti. Sofisma frequente l'uno e l'altro per certa facile appariscenza; ma tanto più odioso in ogni parte della scienza e della vita, tanto più ripugnante a ragione, come sa ogni novizio di logica, anzi ogni semplice seguace del senso comune.
Che se il modernismo riformista muove da un principio così assurdo, non fa meraviglia che si metta per una via falsa e riesca ad assurde conseguenze: ad errori o eresie nell'ordine speculativo; a rimedi peggiori del male e a rovine nell'ordine pratico.
Sono errori, e spesso eresie, le negazioni a cui esso trascorre della legittimità, della ragionevolezza o del debito di ciò che si trovi per sorte soggetto ad abusi. Sono rimedi peggiori del male, cioè rovine nell'ordine pratico, quei rimedii pratici e radicali che esso propone di menomazione, di abolizione o trasformazione, in cambio di riforma. Tanto più che, ammesso il loro principio o norma pratica di riforma - quella cioè di correre tosto a rinnegare la legittimità speculativamente, e praticamente a dìstruggere l'esistenza di ciò che va incontro ad abusi - nulla più sussiste, in qualsiasi ordine, d'intatto e di sicuro.
Non nell'ordine pratico; perchè non ci vuole alfine grande esperienza, nè grande acume di raziocinio a persuadersi che non si dà cosa al mondo, nella quale o per insipienza o per malizia dell'uomo non possa e a lungo andare non riesca a insinuarsi qualche abuso. E i modernisti stessi, per quanto si suppongano ottimisti, ossia ingenui oltre ogni credere, nelle proposte di riforme senza fine, e tutte rapide e radicali, che ci fanno, non oseranno forse sperar tanto.
Non nell'ordine speculativo; perchè come l'errore dal giro delle idee passa, per naturale estensione, all'ordine dei fatti, alla pratica; così, per un facile ricambio, dal giro dei fatti risale a quello delle idee, senza dire che già la colpa trae seco o presuppone un'ignoranza o un errore. Conforme a ciò, ogni disordine o abuso è facile occasione di errare; mentre chi lo sostiene cerca in un falso principio la propria giustificazione, e chi lo condanna trova nel fatto stesso dell'abuso un pretesto di trarne qualche falsa conclusione.
Ma nell'uno e nell'altro caso, come si è notato più volte nella storia dell'errore, si muove da uno stesso presupposto falso e da esso logicamente si tirano conclusioni contraddittorie.
Il presupposto falso è di confondere il diritto con l'uso, il dovere o il potere con l'attuazione o l'esercizio. Quindi la conclusione degli uni, che la legittimità dì quello scusi o legittimi il disordine di questo, cioè l'abuso. E quindi pure la conclusione degli altri che la illegittimità di questo mostri evidente la illegittimità di quello, cioè del diritto, e perciò la necessità di abolire il diritto stesso o il soggetto dell'abuso, perchè sia efficace la riforma. Sono conclusioni opposte fra di loro e in sè assurde, come ognun vede, ma dedotte logicamente da uno stesso principio. E però, se vale ancora qualche cosa la logica, esse basterebbero da sè, quando altro non vi fosse, a dimostrare la falsità del principio stesso. Dalla falsità e dalla contraddizione del conseguente non si può che risalire alla falsità dell'antecedente; come solo da un'assurdità di principio si può scendere logicamente ad assurdità di conclusioni per una parte così opposte e per altra così concordi nell'errare.
Chi dunque, secondo il dettato dell'antica sapienza, vuol evitare le conseguenze, bisogna che muti i principii, donde queste scaturiscono: Muta antecedentia, si vis vitare sequentia.

V.

Da tutte le cose dette si conferma novamente, che neppure in quest'ultimo estremo del loro sistema i modernisti sono moderni: essi continuano anche qui la vecchia tradizione del vizio e dell'errore.
E il simile notava già, fino dalla prima metà del secolo XV, il gran cancelliere parigino, Gersone, a proposito di molti eretici, anche de' suoi tempi; i quali avevano preso le mosse a traviare dal falso zelo o dal pretesto «di togliere gli scandali dalla casa di Dio per questa o quella via di predicazione». «Di qui - scriveva egli - le eresie contro il primato della Chiesa romana, che senza di essa vi abbia salute; contro le dotazioni della Chiesa universale, che sieno quasi veleno sparso sopra di lei e officina di ogni specie di simonia; contro la condizione splendida e l'ampia famiglia dei prelati, e quindi si possa dai secolari prendere loro ogni cosa; contro l'osservanza dei religiosi, quasi che contrastino alla libertà della legge di Cristo... e così di altre cose molte. Mentre spiacevano i costumi, nacquero gli errori: fu condannato per giunta lo stato, mentre vi si scorgeva spiacevole abuso, a esempio del medico stolto che distrugge il soggetto, mentre si sforza di cacciarne la malattia» [3].
E non meno fiero di Gersone insorgeva contro l'ipocrisia e la sofistica dei falsi riformatori Pietro d'Ailly, al Concilio di Costanza, con parole scultorie in cui vibra davvero il palpito dell'attualità e che noi altrove abbiamo ripetuto ai modernisti [4].
Scendendo poi all'età della pseudo-riforma e giù giù fino a quella del giansenismo, del gallicanesimo, del liberalismo dei tempi nostri, le testimonianze di questa sofistica nei pretesi riformatori sono tante e così palpabili che si rende inutile il farvi insistenza.

VI.

Piuttosto è a deplorare da capo, che il modernismo riformista peggiori di tanto anche questa vecchia sofistica; e, che è peggio ancora, la indirizzi a sommuovere di soppiatto gli stessi fondamenti della Chiesa, sotto colore di riforma. Chi ci ha tenuto dietro fin qui, non ne avrà più dubbio: chi ne ritenesse ancora qualche ombra, esamini posatamente i quattro capi di riforme, a che si possono ridurre le proposte ardimentose mentovate dall'enciclica e da noi sopra ricordate in compendio: insegnamento, culto, costituzione o governo e costumi.
Anche senza un lungo trattato - quale potrebbe pur farsi per ognuna di tali proposte in particolare - apparirà di primo tratto manifesto, com'esse portino seco un'infinità d'innovazioni, speculative e pratiche, le più radicali; onde infine il pervertimento e la distruzione di ciò che è la essenza stessa della Chiesa. Così l'insegnamento, riformato sopra le rovine della scolastica e del catechismo, nell'istituzione scientifica e nella istruzione popolare, vuole finire con la distruzione di tutto l'edifizio dottrinale del cattolicismo, anzi di ogni cristianesimo dommatico, per introdurvi in quel cambio un «cristianesimo etico» in perpetua evoluzione, con una forma nuova di religione o religiosità dell'avvenire.
Similmente il culto, riformato dal modernista o piuttosto menomato, se non affatto abolito, in tutte o quasi le manifestazioni esteriori, riesce a rompere o a rilassare il vincolo sociale della religione, a soffocare o a rattiepidire il fervore della stessa religione interna, che stante la natura dell'uomo, composta di anima e di corpo, deve espandersi di necessità in atti anche esteriori; infine riesce a stravolgere il concetto stesso del culto debito a Dio, il quale culto non è ristretto al solo spirito dell'uomo, ma a tutto l'uomo, di cui Dio è l'autore. Che se pure si vuole conservato il culto esterno secondo i placiti del simbolismo modernista, esso è ridotto a un'ombra, a un cadavere di culto, senza spirito nè vita, o più veramente a una forma d'impostura.
Nè meno grave è la innovazione che vagheggiano della costituzione e del governo della Chiesa: essa importa la negazione di non pochi dogmi, come della fondazione divina della Chiesa stessa, della sua unità monarchica, del primato di Pietro e dei suoi successori, con tutte le loro doti e prerogative: di più, una introduzione esplicita della prevalenza democratica, che finirebbe in un'anarchia, nella costituzione e nel governo ecclesiastico: questo verrebbe insomma stravolto nella sua triplice funzione, legislativa, giudiziaria ed esecutiva, secondo le teorie politiche del Rousseau, non senza molti riscontri con gli antichi vaneggiamenti dei legulei e degli imperialisti medievali, dei giansenisti e dei gallicani - di cui la storia ricorda i pestiferi effetti nei più gravi disordini - traendo seco un intero rivolgimento della disciplina e del dogma.
Non parliamo poi delle riforme di costumi o di morale; chè qui le proposte si moltiplicano tanto più facilmente, in quanto i modernisti parlano sempre di riformare altrui e non mai se medesimi, al contrario dei santi. Essi anzi s'indegnano, come per insulto, contro chiunque parli loro di pensare qualche poco a se stessi, di riformare le loro idee, i loro modi o costumi. Infatti l'esaminarsi, il pentirsi l'umiliarsi, l'ubbidire, il mortificarsi e tutte le virtù insomma che sono ordinate all'atto, primo e più necessario all'individuo, di perfezionare se stesso, vengono da essi disprezzate col nomignolo di «passive»; esaltate in loro vece, ed esse sole onorate del titolo pleonastico di «attive», le virtù ordinate all'azione esteriore, in cui l'uomo si effonde, si agita e si riversa tutto nel turbine della vita moderna, cercando i suoi modelli, non sul Calvario o a Betlem, ma là, oltre i mari, «nel paese della vita intensa».
Molto meno toccheremo ora delle proposte troppo dubbiamente sincere, di ritornar il clero all'antica povertà, e meno ancora di altre più delicate, quali, ad esempio, l'abolizione del celibato e la coeducazione dei due sessi, difesa quella da don Domenico Battaini, e questa da don Romolo Murri, i quali si guarderanno bene dallo smentirci.
Ora noi vogliamo finire qui, con la chiusa dolorosa del nostro santo Padre Pio X: - «Che si lascia dunque d'intatto nella Chiesa che non si debba da costoro e secondo i loro principii riformare?»- E se così è, non sono essi riformatori saggi, ma distruttori insipienti, ma pervertitori. E tanto basti.

Prospetto degli articoli della Civiltà Cattolica sul modernismo:FascicoloData:AnnoVolume
Decreto Lamentabili, testo, traduzione e commento137124 luglio 190758°III
Enciclica Pascendi testo latino137418 sett. 190758°III
Enciclica Pascendi traduzione italiana137528 sett. 190758°IV
Il modernismo filosofico (I parte)137722 ottobre 190758°IV
Il modernismo filosofico (II parte)137928 novembre 190758°IV
Motu Proprio Prestantia Scripturae Sacrae lat./it137927 novembre 190758°IV
Il modernismo teologico (I parte)138126 dic. 190759°I
Il modernismo teologico (II parte)13828 genn. 190859°I
Il modernismo teologico (III parte)13845 febbr. 190859°I
Il modernismo teologico e il Concilio Vaticano138612 marzo 190859°I
Il modernismo teologico e il suo sistema di conciliazione138810 aprile 190859°II
Il modernismo ascetico13906 maggio 190859°II
Il modernismo apologetico139129 maggio 190859°II
Il modernismo riformista140129 ottobre 190859°IV
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NOTE:

[1] «Ecclesia Dei inter multam paleam multaque zizania constituta, multa tolerat; et tamen quae sunt contra fidem vel bonam vitam non approbat, nec tacet, nec facit». Ep. 55 ad Ianuar. Cf. Migne, Patrol. lat., XXXII, 221 s.
[2] Il buon uso della logica in materia di religione. 4a ediz. Roma 1807. Tom. 1, p. 113 ss.
[3] Gerson, De consol. theol., lib. III, 2. Una simile osservazione faceva altresì, con molta vivezza, a proposito di Arnaldo da Brescia, un suo contemporaneo, Guntero cistercense, nel poema Ligurinus, scritto in lode del Barbarossa (lib. III, v. 288; cf. Migne Patrol. lat., CCXII, 370); ove si duole che l'eresiarca dai veri abusi dei chierici deducesse false conseguenze, e che dalle sue false conseguenze i chierici traessero pretesto a non correggersi degli abusi: ond'egli esclama, in quei suoi esametri bonarii ma efficaci:
«Et fateor, pulchram fallendi noverat artem,
Veris falsa probans quia tantum falsa loquendo
Fallere nemo potest; veri sub imagine falsum
Influit, et furtim deceptas occupat aures».
[4] Cf. Civ. Catt., 1906 (3 febb.), p. 257.