Quando la tradizione fu opacizzata
Fu evento storico
più importante nei modi che nei testi prodotti Continuità o rottura? E’ forse
giunto il momento di uscire dalla gabbia ermeneutica in cui si dibattono gli
studiosi del Concilio Vaticano II. Tutti coloro che affrontano la discussione
storiografica sul Concilio, mettendone in luce, da diverse angolature, gli
elementi di oggettiva “svolta” con l’epoca precedente, vengono infatti
sbrigativamente etichettati come sostenitori dell’“ermeneutica della
discontinuità”, in contrasto con il magistero di Benedetto XVI e dei suoi
predecessori.
Questo è ad esempio il sovrano metro di
giudizio di monsignor Agostino Marchetto, nel suo recente volume Il
Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (Libreria
Editrice Vaticana, 2012) come lo era stato del resto nel suo precedente studio
Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia (Libreria
Editrice Vaticana, 2005).
In questi due libri più che storico,
monsignor Marchetto si dimostra attento recensore di tutto ciò che nell’ultimo
decennio è stato pubblicato in tema di Vaticano II. Non è questo necessariamente un limite. Il limite è
quello di lanciare sugli autori recensiti, a destra e a sinistra, accuse di
“discontinuismo”, facendosi scudo di un presunto magistero a questo riguardo
per coprire una sostanziale debolezza argomentativa. Benedetto XVI però, nel
suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ha dichiarato che
all’ermeneutica della discontinuità non si oppone un’ermeneutica della
continuità tout court, ma un’“ermeneutica della riforma” la cui vera natura
consiste in un “insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi”. Forse
è proprio dalla constatazione dell’esistenza di livelli diversi di continuità e
di discontinuità che bisognerebbe procedere.
Continuità o discontinuità del Vaticano II
nei confronti della chiesa precedente che può essere considerata sotto due
aspetti: la dimensione storica e umana della
chiesa e la sua dimensione ontologica, che si esprime nella immutabilità della
sua Tradizione. Una distinzione che corrisponde alla duplice natura della
chiesa, umana e divina e che rende il discorso ben più articolato e ricco di
sfumature di quanto monsignor Marchetto e altri autori vorrebbero. Il primo
livello di indagine spetta allo storico, che ha come criterio veritativo quello
dell’accertamento e della valutazione dei fatti. Il secondo livello appartiene
al teologo, al pastore e, in ultima istanza, al Sommo Pontefice, supremo
custode delle verità di fede e di morale. Si tratta di due piani distinti, ma
connessi e interdipendenti, come lo sono l’anima e il corpo nell’organismo
umano. Ma è solo dopo la ricostruzione storica, non prima, che intervengono i
pastori, per formulare i loro giudizi
teologici e morali.
teologici e morali.
I due livelli, quello storico e quello
ermeneutico non si possono confondere, a meno di non ritenere che la storia
coincida con la sua interpretazione.
Ciò significa che il Concilio Vaticano II deve essere affrontato non solo sul
piano teologico, ma innanzitutto, sul piano storico come evento. Il teologo
eserciterà la sua riflessione sui testi, lo storico, senza trascurare i testi,
riserverà la sua attenzione soprattutto alla loro genesi, alle loro
conseguenze, al contesto in cui essi si situano. Sia lo storico che il teologo
cercano la verità, che è la medesima, ma vi arrivano per vie diverse, non
contrapposte.
Sembra che sia stato il cardinale Ruini ad
affidare a Marchetto il compito di contrastare l’opera storica, di segno ultraprogressista, di Giuseppe Alberigo e
della sua “scuola di Bologna”. Ma contro la storia tendenziosa di Alberigo e
dei suoi continuatori non è sufficiente affermare che i documenti del Concilio
devono essere letti in continuità e non in rottura con la Tradizione.
Quando nel 1619 Paolo Sarpi scrisse una
storia eterodossa del Concilio di Trento, non gli furono contrapposte le
formule dogmatiche di Trento, ma
gli fu opposta una storia diversa, la celebre Storia del Concilio di Trento
scritta per ordine del Papa Innocenzo X dal cardinale Pietro Sforza Pallavicino
(1656-1657): la storia infatti si combatte con la storia, non con le
affermazioni teologiche. E’ questo il motivo per cui le critiche che Marchetto
rivolge al mio studio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau,
2011), sono pallottole a salve fuori bersaglio. Non sono infatti né un
“discontinuista”, come Marchetto si ostina a ripetere, né un “continuista”,
perché giudico questo termine altrettanto privo di significato del precedente.
Sono più semplicemente uno storico che si
propone di raccontare in maniera vera e oggettiva quanto è accaduto, non solo
nei tre anni in cui si svolse il Concilio Vaticano II, dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965, ma negli
anni che lo precedettero e in quelli che a esso immediatamente seguirono,
l’epoca del cosiddetto “postconcilio”. Faccio mio l’auspicio che il cardinale
Ruini rivolgeva il 22 giugno 2005 all’impresa di monsignor Marchetto (“è tempo
che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia
anche, finalmente, una storia di verità”) ma non credo che sia produttivo
nascondere la verità storica dietro il velo di una malintesa “ermeneutica della
continuità” Discordo radicalmente dalla lettura del Concilio che lo storico di
Bologna Giuseppe Ruggieri propone nel suo recente Ritrovare il concilio
(Einaudi, 2012), ma non posso dargli torto quando afferma che il compito dello
storico consiste “nel conoscere, a partire dalle fonti, cosa sia veramente
accaduto e nel comprendere il significato effettivo di ciò che è veramente
accaduto” e spiega perché il Concilio Vaticano non è riducibile alle sue
decisioni (pp. 7-11).
Ho già avuto occasione di scriverlo: i
Concili possono promulgare dogmi, verità, decreti, canoni, che sono emanati dal
Concilio, ma che non sono il Concilio. Il
Concilio è diverso dalle sue decisioni, che solo quando sono infallibilmente
promulgate entrano a far parte della Tradizione (Apologia della Tradizione.
Poscritto a Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta). Come negare che
il Concilio Vaticano II abbia avuto una sua “specificità” rispetto ad altri
eventi storici e che abbia rappresentato, per molti aspetti, una “Rivoluzione”?
Lo attestano le testimonianze che in occasione dei cinquant’anni dell’apertura
del Concilio ha raccolto Avvenire, come quella del sociologo canadese Charles
Taylor, che ricorda l’evento con queste parole: “Era come la caduta di Gerico”
(Avvenire, 26 luglio 2012).
La principale novità del Vaticano II fu la
sua natura pastorale. Il cardinale Walter Brandmüller lo ha spiegato bene. I Concili esercitano, sotto e con il Papa, un solenne
magistero in materia di fede e di morale e si pongono come supremi giudici e
legislatori in materia di diritto e di disciplina della chiesa, ma il Vaticano
II, al contrario dei precedenti Concili, “non ha esercitato la giurisdizione né
legiferato, né deliberato su questioni di fede in via definitiva. Esso è stato
piuttosto un nuovo tipo di Concilio, in quanto si è concepito come Concilio
pastorale, che voleva spiegare al mondo di oggi la dottrina e gli insegnamenti del
Vangelo in un modo più attraente e istruttivo. In particolare non ha
pronunciato alcuna censura dottrinale. […] Invece il timore di pronunciare sia
censure dottrinali che definizioni dogmatiche ha fatto sì che alla fine
emergessero pronunciamenti conciliari il cui grado di autenticità e dunque di
obbligatorietà fu assolutamente vario. (…)
Ogni testo conciliare ha un differente
grado di cogenza. Anche questo è un aspetto totalmente nuovo
nella storia dei Concili” (Walter Brandmüller, Il Vaticano II nel contesto
della storia conciliare, in Aa. Vv., Le “chiavi” di Benedetto XVI per
interpretare il Vaticano II, Cantagalli, 2012, pp. 54-55). Gli studi di
monsignor Brunero Gherardini (l’ultimo è Il Vaticano II. Alle radici di un
equivoco, Lindau, 2012) restano il punto di riferimento fondamentale per una
valutazione del grado di cogenza di questi insegnamenti per lo più pastorali.
Caratteristica sorprendente quella della pastoralità perché in tutti i venti
Concili universali precedenti, la forma è sempre dogmatica e normativa. Quella
definitoria, come osserva Enrico Maria Radaelli, in un suo acuto studio sul
linguaggio del Vaticano II, è “la forma naturale del linguaggio della chiesa”
(Il domani – terribile o radioso – del dogma, edizione pro manuscripto, 2012).
La pastoralità non fu solo un “fatto”,
ovvero la naturale esplicazione del contenuto dogmatico del Concilio nei modi
adatti ai tempi, come era sempre stato. Né
il Concilio Vaticano I, né quello di Trento erano infatti privi di dimensione
pastorale. La “pastoralità” fu invece elevata a principio alternativo alla
“dogmaticità”, sottintendendo una priorità della prima sulla seconda. La
dimensione pastorale, per sé accidentale e secondaria rispetto a quella
dottrinale, divenne nei fatti prioritaria, operando una rivoluzione nel
linguaggio e nella mentalità. Un autore non appartenente alla scuola di
Bologna, il padre John O’Malley della Georgetown University, ha definito il
Vaticano II come “un evento linguistico”, spiegando come alle professioni di
fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che egli chiama
“epidittico”, ovvero discorsivo (Che cosa è successo nel Vaticano II, tr. it.
Vita e Pensiero, 2010, pp. 45-54).
La chiesa si spogliò della sua veste
dogmatica per indossare un nuovo abito pastorale ed esortativo, non più
obbligatorio e definitivo. Ma esprimersi in termini
diversi dal passato, significa compiere una trasformazione culturale più
profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso e il modo con cui ci
si presenta rivelano infatti un modo di essere e di pensare: lo stile, ricorda
O’Malley, è l’espressione ultima del significato. Si può aggiungere che la
rivoluzione nel linguaggio non consiste solo nel cambiare il significato delle
parole, ma anche nell’omettere alcuni termini e concetti. Si potrebbero fare
molti esempi: affermare che l’inferno è vuoto, cosa che il Concilio non fece, è
certamente una proposizione temeraria, se non eretica.
Omettere, o limitare al massimo, ogni
riferimento all’inferno come il Concilio fece, non formula nessuna proposizione
erronea, ma costituisce un’omissione che prepara la
strada a un errore ancora più grave dell’inferno vuoto: l’idea che l’inferno
non esiste, perché non se ne parla, e ciò che è ignorato è come se non
esistesse. Questo linguaggio però non si è rivelato adeguato a esprimere
efficacemente il messaggio religioso e morale del Vangelo. Rinunciando a
esprimere il suo insegnamento in maniera autoritativa e veritativa, la chiesa
ha anche rinunziato a scegliere tra il sì e il no, tra il bianco e il nero,
aprendo ampie zone di equivocità.
La principale caratteristica dei testi
conciliari è non a caso l’ambiguità. Romano
Amerio fu il primo a mettere in evidenza “il carattere anfibologico dei testi
conciliari” (Iota Unum, Lindau, 2010), ovvero la loro equivocità di fondo, che
permette di leggerli in continuità o in discontinuità con la Tradizione
precedente. Un documento ambiguo può essere esplicitato nel senso della
continuità, come si sforza di fare Benedetto
XVI, o in quello della discontinuità, come fa la teologia progressista, ma non
ha mai la limpidezza e il nitore che hanno i grandi testi conciliari da Nicea
al Vaticano I ai quali non si sbaglia mai nel richiamarsi.
Secondo la scuola di Bologna la dimensione
pastorale va considerata come una novità dottrinale implicita nel discorso di
apertura di Giovanni XXIII che presentava il Concilio come un “balzo innanzi
verso una penetrazione dottrinale e formazione delle coscienze”; si trattava, afferma Ruggieri, di “un nuovo
orientamento dottrinale, consistente soprattutto nella reinterpretazione della
sostanza viva del Vangelo nel linguaggio che la storia attuale degli uomini e
delle donne esige…”. La rottura apparentemente solo linguistica fu, secondo i
bolognesi, in realtà dottrinale e questo perché, per essi, il modo in cui si
parla e agisce è dottrina che si fa prassi. Come non
vedere in questa convinzione, che fu allora di Dossetti, ed è oggi dei suoi eredi, attraverso
Alberigo, la trascrizione all’interno della chiesa della categoria gramsciana di prassi in voga negli anni Sessanta?
vedere in questa convinzione, che fu allora di Dossetti, ed è oggi dei suoi eredi, attraverso
Alberigo, la trascrizione all’interno della chiesa della categoria gramsciana di prassi in voga negli anni Sessanta?
La prassi era il modo di rapportarsi della
chiesa con il mondo, che in quegli anni effettivamente mutò, abbandonando, ad
esempio, come ben sottolineano Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, la lingua latina, la predicazione apologetica per il
popolo e lo stile definitorio e giuridico (La Bella Addormentata. Perché dopo
il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Vallecchi
Editore, 2011). Il Vaticano II non ne deliberò in modo esplicito e solenne la
rimozione e tuttavia il vento del Concilio spazzò via questi tre pilastri della
comunicazione cattolica, sostituendoli con un nuovo modo di esprimersi e di
parlare ai fedeli. Una volta accettato il primato della prassi si arrivò
all’assunzione di criteri massmediatici, come vere e proprie categorie
ecclesiali.
La assunzione del linguaggio mediatico,
proprio del mondo, costrinse a sottomettersi alle sue regole. Ciò spiega il ruolo di quel “paraconcilio” a cui si
sono volute attribuire responsabilità che però scaturivano dallo stesso evento
conciliare (don Enrico Finotti, Vaticano II 50 anni dopo, Fede & Cultura,
2012, pp. 81-104). L’errore della scuola di Bologna non è quello di mettere in
luce la portata della rivoluzione pastorale, che i teologi e gli storici
“continuisti” pretendono minimizzare, ma di presentarla come una “nuova
Pentecoste” per la chiesa, tacendone le catastrofiche conseguenze. Il loro
errore non sta nella ricostruzione storica, generalmente corretta, pur nelle
forzature, ma nella pretesa, tipica dell’immanentismo modernista, di fare della
storia un locus teologico.
L’“ascolto della Parola di Dio” diviene
per essi l’ascolto del Verbo che si autorivela nel divenire storico. Per Ruggieri, l’espressione più vera di questa
ermeneutica storica sarebbe la costituzione Dei Verbum, laddove soprattutto nel
proemio e al n. 2, “essa non separa la rivelazione dall’evento del suo ascolto
e introduce così la storia stessa come elemento costitutivo
dell’autocomunicazione”. Anche se l’espressione più diretta di questa
ermeneutica storica è certamente Gaudium et spes, perché nella redazione della
costituzione l’orientamento fondamentale fu quello di uno sguardo recettivo nei
confronti della storia, come luogo nel quale avviene l’interpellazione attuale
di Dio, con il riconoscimento esplicito che “la chiesa non ignora quanto essa
abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano” (GS, 44)”.
La strada da seguire non è segnata
dall’orientamento che propone Giuseppe Ruggieri né da quello che indica
monsignor Marchetto, ma dal ritorno alla grande tradizione storiografica della
chiesa. L’ermeneutica biblica contemporanea
postula l’uso di una strumentazione storicocritica per analizzare la dimensione
umana della Sacra Scrittura, e portarne alla luce la verità oltre le ingenuità
apologetiche. Ma se, come affermano gli esegeti à la page, la via maestra per
avvicinarsi alle Sacre Scritture è il metodo storico-critico, non si comprende
perché lo stesso tipo di indagine non possa essere applicato a un evento
storico quale fu il Concilio Vaticano II. Sembra curioso, il tentativo di
demitizzare la Scrittura, arrivando a negare dogmi centrali della Fede
cattolica, e di divinizzare invece il Vaticano II, facendone un “superdogma”,
che non ammette critiche o revisioni di alcun genere.
Il cardinale Walter Brandmüller,
presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze storiche, ha promosso
nel 2012 alcuni seminari di studio sul Vaticano II, tra studiosi di differenti
tendenze. Questi colloqui, sono stati un’utile
occasione per togliere al Vaticano II quel velo di “intoccabilità” che
impedisce ogni serio approfondimento e farlo oggetto di una pacata analisi tesa
a collocarlo, all’interno della storia della chiesa, come non il primo né l’ultimo,
ma il ventunesimo Concilio ecumenico della chiesa. C’è da augurarsi che l’Anno
della Fede inaugurato da Benedetto XVI contribuisca a questa opera di
rivisitazione storica, così importante per comprendere le cause della crisi
religiosa e morale contemporanea.
Roberto de Mattei
Roberto de Mattei
[1] Roberto de
Mattei: https://plus.google.com/104289627121235509825