Un commento sulla
lettera del Papa
a Scalfari
La lettera di Papa
Francesco ad Eugenio Scalfari, fondatore
del quotidiano "La Repubblica", non è certo un atto di
Magistero, e in questo potranno concordare anche coloro che sono soliti rimproverarci
su questo punto. È quindi senz’altro possibile discuterla alla luce del
Magistero, quello sempre vivo perché interprete e vicario delle parole del
Cristo, pronunciate duemila anni fa. Il Magistero, quello vero, non si
distingue in vivente o passato: un atto di qualsiasi epoca è
sempre vivo e attuale, essendo solo la conferma per noi di quanto detto o non
detto da Gesù e dagli Apostoli.
Il fatto che la lettera
non sia Magistero, come molti altri atti apparentemente ufficiali dei recenti
Pontefici, non toglie che sia un atto gravissimo, perché pubblico e quindi, in
caso fosse erroneo, atto a produrre scandalo (cioè cattivo esempio, spinta
all’errore) nel lettore.
Innanzitutto, sulla figura
di Scalfari e sull’opportunità di dialogare con lui, specie dandogli credito in
pubblico di valido interlocutore, rimandiamo a un
articolo di Francesco Colafemmina , del quale ci piace
citare il commento: «Scalfari non cerca Dio. Scalfari tenta Dio e il Papa. Non
è in dialogo perché cerca l'Assoluto, no. Il suo è un pallino intellettuale.
Non cerca nulla per sé, per la sua anima, concetto al quale non crede neppure e
dunque perché chieder conto del peccato? Lui vuol solo dimostrare al mondo che
la Chiesa deve dare spiegazioni della sua presunzione di verità e della sua
autorità in merito al peccato. E che la Chiesa di papa Francesco è diversa da
quella che l'ha preceduta. Per Scalfari non esiste né Dio né il peccato. Ma
egli tenta il Papa, vuole costringerlo per mera cortesia verbale attraverso un
gioco di insincera apertura alle sue risposte, ad affermare che sì, la
misericordia di Dio perdona sempre. Che anche l'ateo - che per il catechismo
per ciò stesso ossia per la sua negazione consapevole di Dio, è già in stato di
peccato - in realtà non compie peccato se non quando ignora la sua coscienza.
Ma cos'è la coscienza e come si articola il suo giudizio? Questo il Papa non lo
chiarisce. Peccato che il Papa si sia prestato al giochino superbo e
autoreferenziale di Scalfari. Non una pecorella smarrita, ma un peccatore
convinto, un ateo animato soltanto da una insensata hybris».
Venendo al testo, che è
ciò che più conta, abbondano le espressioni circiteristiche (come avrebbe detto
Amerio sull’esprimersi senza definire precisamente i concetti), e affermazioni
che sembrano quasi giochi sulle parole, come l’affermazione che la verità non è
assoluta perché “relazione” con Gesù Cristo. Ovviamente il termine assoluto è
preso in due sensi diversi: Scalfari chiede se la verità è assoluta, cioè non
relativa al soggetto che la recepisce, e il Papa risponde che non è assoluta
perché mette il soggetto in relazione con Gesù Cristo. Evidentemente non era
mediaticamente opportuno che il Papa predicasse l’aggettivo assoluta al
soggetto verità, quindi è bastato un semplice sofisma per non negare e
non affermare. Altro punto simile è il trito ritornello del dialogo, senza
grandi distinzioni e senza che si capisca quale sia lo scopo del dialogo
medesimo. Anche su questo si è detto e scritto molto. Quanto al presentare la
fede come incontro personale, come esperienza (anche comune), si vede quanto
questo avvicina alle varie forme dell’errore modernista. Anche l’affermazione
apparentemente più antirelativista («Dio non dipende dal nostro pensiero») ha
come fondamento l’esperienza personale che Francesco vuole condividere con il
suo interlocutore: « Dio — questo è il mio pensiero e questa la mia esperienza,
ma quanti, ieri e oggi, li condividono! — non è un’idea, sia pure
altissima, frutto del pensiero dell’uomo». Che cosa resti della fede teologale,
come anche delle prove metafisiche dell’esistenza di Dio, è difficile dirlo: di
certo non sono menzionate, forse per ragioni pastorali, o forse perché ritenute
impresentabili.
Il punto chiave sul
quale ci dobbiamo soffermare, è però costituito dalle numerose affermazioni
apertamente eterodosse. Seguiamo l’ordine della lettera nell’enumerarle.
Secondo il Papa, per un
salto logico di difficile comprensione, dall’Incarnazione deriva la separazione
tra sfera politica e religiosa, al punto che la Chiesa semplicemente addita la
meta ultraterrena facendosi sale e lievito nella massa, senza che ciò comporti «ricerca
di qualsivoglia egemonia». A parte la condanna della separazione Stato/Chiesa
compiuta da san Pio X nell’enciclica Vehementer o da Leone XIII in Satis
Cognitum, anche il fatto che la Chiesa debba solo dare una direzione e non
esigere l’effettiva sottomissione a Dio della società civile è ampiamente
condannato (Costituzione Inter multiplices di Alessandro VIII del 4
agosto 1690, DzS. 2281-2285; condanna ripresa da Pio VI in Auctorem fidei,
DzS. 2699), inconciliabile con la dottrina del Cristo Re di Pio XI in Quas
primas, e del tutto opposto alla definizione dogmatica di Bonifacio VIII in
chiusura di Unam Sanctam, che in virtù dell’unità di Dio richiede la
sottomissione di ogni creatura (quindi anche del potere secolare, su cui
verte la bolla) al Romano Pontefice. Papa Francesco tra l’altro attribuisce a
un faticoso - ma evidentemente positivo - processo questa separazione
realizzatasi in Occidente, sancendo così come lodevole sforzo secoli di lotta
contro il potere di Cristo, del Papa e della Chiesa Romana.
Segue nella lettera un
paragrafo sul popolo ebraico, dove si afferma che «mai è venuta meno la
fedeltà di Dio all’alleanza stretta con Israele e che, attraverso le
terribili prove di questi secoli, gli ebrei hanno conservato la loro fede in
Dio. E di questo, a loro, non saremo mai sufficientemente grati, come Chiesa,
ma anche come umanità». Su questa dottrina così di moda e così opposta al dato
rivelato, rinviamo a recenti
studi pubblicati sul sito della FSSPX .
La parte più
inquietante rimane comunque quella sulla libertà di coscienza, che sfocia in un
aperto relativismo. Non si accenna minimamente al dovere morale di adeguare la
propria coscienza all’ordine voluto da Dio, proprio mentre Scalfari chiedeva
cosa pensa la Chiesa della salvezza di chi nemmeno cerca Dio o la verità (cioè
anche chi rimane nell’ignoranza volontariamente, magari anche per negligenza).
Vi si trova invece, papale papale, la seguente affermazione: « Innanzi
tutto, mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non
cerca la fede. Premesso che — ed è la cosa fondamentale — la misericordia
di Dio non ha limiti se ci si rivolge a lui con cuore sincero e contrito, la
questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il
peccato, anche per chi non ha la fede, c’è quando si va contro la coscienza.
Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò
che viene percepito come bene o come male. E su questa decisione si
gioca la bontà o la malvagità del nostro agire». Se questo non è puro relativismo,
ci si domanda che cosa sia questa tanto vituperata dottrina. Anche prescindendo
dal problema del peccato puramente materiale, anche prescindendo dal fatto che
non si capisce come possa rivolgersi contrito a Dio chi non crede (ma il
problema non si pone: non essendo peccato per il non credente non credere, di
che dovrebbe essere contrito?), anche prescindendo dal fatto che la salvezza
viene dalla grazia (che quindi mi porta a conoscere la verità, o almeno a
cercarla: altro che pelagianesimo!), questa pubblica risposta conferma
nel suo stato il non-credente che non cerca la fede, e potenzialmente
giustifica qualsiasi atto che venga percepito come bene dal
soggetto. L’unico male sarebbe agire contro coscienza, a prescindere dallo
stesso dovere della coscienza di adeguarsi alla verità oggettiva e esterna. Che
spazio resta tra tali affermazioni e il “sarete come Dio, conoscerete il bene e
il male”? Non ci sembra nemmeno necessario ricordare qui le condanne della
libertà di coscienza di Mirari vos e Quanta cura, e rinviamo alle
encicliche Immortale Dei e Libertas di Leone XIII per chi volesse
sentire delle parole cattoliche e magisteriali.
Di fronte a questi
errori condannati ma pubblicamente ripetuti a così alto livello e con tale alto
grado di pubblicità, è dunque dovere di ogni cattolico di professare
apertamente e senza timore la verità, dissociandosi da tali affermazioni che
attaccano diversi punti del dogma e minano le basi della virtù di fede e di
qualsiasi vita morale fondata sull’ordine oggettivo voluto da Dio Creatore e
Redentore. Respingiamo questo pelagianesimo che mira a fare della coscienza
umana, anche negligente e nell’ignoranza crassa, l’artefice della sua propria
salvezza. Ribadiamo la necessità di credere per avere la vita eterna, e della grazia
per credere e vivere coerentemente alla fede: senza tutto questo, è impossibile
piacere a Dio e essere salvati.
Don
Mauro Tranquillo