nella riforma liturgica
di Alessandro Gnocchi
Nessun
grande uomo, diceva Hegel, sfugge al biasimo del cameriere che ne governa le
stanze nascoste. Ugualmente, le rivoluzioni e i loro traumi riformatori non si
sottraggono al giudizio del robivecchi che ne frequenta il retrobottega in cui
giacciono le vestigia del tempo andato e dell’ordine travolto. Per quanto sia
nascosto, c’è sempre un luogo in cui l’individuo d’eccezione e l’evento epocale
sono costretti a mostrare la propria natura più intima, fosse solo in un
dettaglio.
Per disegni oscuri, pare quasi si sia
voluta cancellare la memoria di questo paramento originato dalla mappula,
il fazzoletto di lino che la nobiltà romana portava al braccio sinistro, usato
per detergere lacrime e sudore e per dare il segno dell’inizio dei
combattimenti nel Circo. “Merear, Domine, portare manipulum fletus et
doloris; ut cum exsultatione recipiam mercedem laboris” recita il sacerdote
mentre lo indossa durante la vestizione, “O Signore, che io meriti di portare
il manipolo del pianto e del dolore, affinché riceva con gioia la mercede del
mio lavoro”: e, ancora una volta, ha principio il combattimento contro il mondo
e il suo principe, in cui misticamente il sacerdote suda, piange, sanguina e
lotta fin sulla croce come alter Christus. Ma serve la dolorosa e virile
compenetrazione nel sacrificio, di cui l’esile manipolo è segno e strumento. Là
dove, invece, se ne è persa volentieri la memoria per dedicarsi al banchetto
festante di una salvezza priva di fatiche non vi è luogo per i segni della
battaglia a cui si deve consegnare il proprio corpo.
Lo strazio di padre Pio e della sua carne
stigmatizzata, le estasi di San Filippo Neri che affondava i denti nel calice
per bere avidamente tutto il suo Signore, le visioni di San Giovanni Crisostomo
che assisteva al discendere della folgore sull’altare, e poi tutte le messe
fino a quelle del più indegno dei sacerdoti che avesse anche solo un po’ fede
nel miracolo della transustanziazione sono sempre state, allo stesso tempo, il
cuore e il frutto della battaglia contro il principe di questo mondo.
|
“Impone,
Dómine, cápiti meo gáleam salútis, ad expúgnandos diabolicós in cursus”,
“Metti, o Signore, sulla mia testa l’elmo della salvezza per vincere gli
assalti del demonio” prega il sacerdote quando, preparandosi alla celebrazione,
indossa l’amitto, altro indumento che richiama la battaglia e il
sacrificio caduto in disuso nella messa riformata. Oggi, nella Chiesa
postconciliare, si preferisce parlare per parlare, dialogare per dialogare,
conversare amabilmente con il mondo inebriati di un illusorio potere seduttivo
della chiacchiera. Non serve più un indumento come l’amitto che, oltre
all’elmo del guerriero, simboleggia anche la “castigatio vocis” e bandisce
dall’atto di religione ogni parola che non sia rituale e, quindi,
inesorabilmente di troppo. Si è persa l’attitudine al rito e, dunque, si è
persa l’attitudine al comando, e perciò i sacerdoti hanno rinunciato alla veste
talare. "Quando gli uomini vogliono apparire senza fallo solenni” scrive
Gilbert Keith Chetserton in “ciò che non va nel mondo” commentando la stupidità
delle donne che preferiscono i pantaloni “come nel caso di giudici, sacerdoti e
re, allora indossano la gonna, il lungo frusciante abito della dignità
femminile. Il mondo intero è retto dalle sottane, poiché persino gli uomini le
indossano, quando desiderano governare”.
L’idea
del comando e della battaglia, delle armi e dell’armatura dello spirito, sono
state dismesse da cristiani che amano farsi cullare dall’accidia, il più
perverso dei vizi capitali. Quella trappola mortale che gli antichi padri
chiamavano akedia o acedia, si è trasmesso di credente in credente fino a
infettare il corpo ecclesiale. Ne è sortito un mal d’essere, un’eresia della
forma che prelude agli errori più diversi e persino contrari tra di loro,
in estremo sberleffo al virile e guerreggiante principio di non contraddizione.
Malata di acedia, la Chiesa ha finito per concepirsi e presentarsi come
problema invece che come soluzione dell’intimo male dell’uomo. Anche quando
parla del mondo lascia trasparire la consapevolezza della propria inefficacia a
indicare una via di salvezza, quasi a scusarsi di averci provato per tanti
secoli. Dubita per prima dei propri fondamenti intellettuali e ascetici e,
proprio mentre proclama di aprisi al secolo, si dichiara incapace di
conoscerlo, di definirlo e, quindi, di educarlo e convertirlo. Al più, si rende
disponibile a interpretarlo.
“L’acedia”
scrive San Giovanni Climaco nella “Scala del Paradiso”, e sembra descrivere la
Chiesa di questi decenni invece che il singolo monaco prostrato davanti alla
fatica della religione, “è abbattimento dell’anima, indebolimento della mente,
negligenza dell’ascesi, odio della professione, è ritenere beati coloro che
vivono nel mondo, è calunniatrice di Dio, come privo di compassione e di
amore per gli uomini. È atonia nella salmodia, debolezza nella preghiera”. Poi,
da vero uomo di Dio, e quindi conoscitore dell’essere umano, l’antico padre
mostra quali effetti effimeri e traditori produce l’acedia, malattia talmente
subdola da presentarsi come illusorio rimedio a se stessa. È “ferrea nel
servizio, attiva nel lavoro, manuale, pronta all’obbedienza. (…) L’accoglienza
degli ospiti è un suggerimento dell’acedia, ed essa esorta a compiere lavori
manuali per fare elemosine, invita calorosamente a far visita ai malati,
ricordando colui che dice: Ero malato e siete venuti da me; esorta ad andare da
coloro che sono scoraggiati e d’animo debole dicendo di confortare coloro che
sono d’animo debole, proprio come lei è d’animo debole. Mentre ce ne stiamo in
preghiera ci fa venire in mente incarichi urgenti e attua ogni stratagemma per trascinarci
via di lì con un motivo ragionevole, come con una cavezza, proprio lei che è
irragionevole”.
Ciò
che, nel VII secolo era ammonimento per le singole membra, oggi vale per
l’intero corpo ecclesiale, preda di quella malattia del fare, un po’ tango y
corazón, ispirata al movimentismo mediatico e al minimalismo intimista
dell’attuale pontificato. Ma non è con il farsi simile al mondo e impalmandone
il linguaggio che lo si seduce, non è esaltando il gesto e la parola di cui il
rito è “castigatio” che si conquista il secolo: perché il mondo ha innanzi
tutto orrore di se stesso e non è secolarizzandosi che il cristiano lo
conquista. “Va” dice Mosè il forte, un altro padre del deserto, al monaco
accidioso “entra nella tua cella e siediti, e la tua cella ti insegnerà ogni
cosa”. E nel saggio sui “Sensi soprannaturali” Cristina Campo scrive: “Non
impunemente si pratica la torva omeopatia che consiglia di curare un
mondo perdutamente ammalato di squallore, anonimato, profanità e licenza per
mezzo di squallore, anonimato, profanità e licenza”. E ancora: “attendersi che
la rigenerazione del profano, la ‘consacrazione del mondo’ possa compiersi
altrove che nelle regioni vertiginose, sulle vette del Sinai, è puerile.
Mangiare tra amici un pasto simbolico, dove e come fantasia lo detti, in
memoria di un filantropo dei tempi antichi è insieme la putrefazione del sacro
e la perdita del profano (…). Heschel ricorda che se noi cessiamo di chiamare
Dio sui nostri altari li occuperanno ineluttabilmente i demoni”.
Ma
l’altare, la grande prova davanti alla quale è chiamato l’uomo nell’atto di
religione, è intimamente legato al dogma, la grande prova a cui l’uomo è
chiamato nell’atto di intelligenza. Se fallisce una, cade anche l’altra
innescando un circolo che si autoalimenta perversamente. Il benedettino dom
Prosper Guéranger, scriveva nelle sue “Institutions liturgiques”: “Venne infine
Lutero, il quale non disse nulla che i suoi precursori non avessero detto prima
di lui, ma pretese di liberare l’uomo nello stesso tempo dalla schiavitù del
pensiero rispetto al potere docente e dalla schiavitù del corpo rispetto al
potere liturgico”.
Il
vizio dell’acedia che ammalia il popolo di Dio facendogli perdere il
confine tra ortodossia ed eresia ha le sue radici nel dramma religioso
dell’agostiniano tedesco, tradotto in aggressione alla liturgia e alla ragione,
all’altare e al dogma, alla lex orandi e alla lex credendi. Nulla di
strano, se si tiene conto che l’uomo è un essere razionale perché è un essere
liturgico e ha come fine ultimo l’adorazione: come non può eliminare il rito
dal proprio orizzonte e dunque deve limitarsi a distrarlo dal legittimo oggetto
e pervertirlo, allo stesso modo si rapporta con la ragione e, quando non la
santifica, la prostituisce. Gli attacchi al Corpo mistico di Cristo passano
sempre attraverso la demolizione della liturgia: il genio eretico di Ario si
diffuse grazie a inni religiosi, e quello ortodosso di Sant’Ambrogio lo vinse
grazie ad altri inni religiosi.
Connaturali
all’essenza liturgica e razionale dell’uomo, l’altare e il dogma sono la prova
su cui misurare la salvezza che una creatura non può darsi da sola: chiedono un
atto supremo di fiducia poiché velano ciò che ogni essere umano vorrebbe
evidente. Questa velatura, considerata odiosa dall’uomo moderno, è frutto
dell’incapacità di cogliere naturalmente l’essenziale da parte di chi ha
perduto lo stato di Grazia. Da solo, l’uomo non è più in grado di percepire il
senso ultimo delle cose e per questo la liturgia, fino a quando non si è arresa
al fascino dei lumi, lo ha sempre aiutato rivestendo la materia di significati
ulteriori. Attraverso i drappeggi posti sul limitare tra finito e infinito,
l’atto di adorazione conduce l’intelligenza a intuire, quanto meno, la bella
ragionevolezza del dogma. E il velo diventa il segno visibile della Grazia e di
una santità invisibili agli occhi dell’uomo, mostra l’essenza intima delle
cose.
Ma
serve fede, come dice San Tommaso nel suo sublime inno eucaristico “Adóro te
devóte”: Visus, tactus, gustus, in te fállitur,/ Sed audítu solo tuto
créditur:/ Credo quidquid díxit Dei Fílius;/ Nil hoc verbo veritátis vérius”,
“La vista, il tatto, il gusto, in Te si ingannano/ Ma solo con l'udito si crede
con sicurezza:/ Credo tutto ciò che disse il Figlio di Dio,/ Nulla è più vero
di questa parola di verità”. Solo in queste regioni così rarefatte, eppure così
concrete da poter essere toccate, mangiate, bevute, è possibile trovare il
punto archimedico in cui dimora la salvezza, la Croce: follia per il mondo, che
considera il cristiano un pazzo destinato a vivere a testa in giù. Eppure, è
proprio così, come San Pietro nell’istante supremo della sua crocifissione con
la testa rivolta verso il basso, che il seguace della Croce ha in ricompensa la
visione meravigliosa e infantile in cui il mondo appare veramente come è: con
le stelle simili a fiori e le nubi come colline e tutti gli uomini sospesi nel
vuoto alla mercé di Dio.
Una
tale visione produce uno sguardo che sgomenta il mondo, tanto da conquistarlo,
senza una parola e un gesto mondani. È il balenìo dipinto con devozione
perfetta nel San Francesco di Francisco de Zubarán, su cui dominano due occhi
spiritualizzati, uno penetrato dalla luce e l’altro immerso nell’ombra, che
appartengono a un altro mondo e non vedono altro. E quando si posano sulle cose
materiali lo fanno solo per dirne la bellezza velata e inattingibile a occhi
profani. L’immagine dell’uomo in piedi, con la testa coperta dal cappuccio, le
mani nascoste nelle maniche dell’abito e lo sguardo al cielo dipinta dal
pittore spagnolo non rappresenta il santo da vivo, ma il suo corpo incorrotto
dopo la morte, come fu trovato nella cripta di Assisi. Abitualmente, il
ritrovamento di Francesco viene dipinto come un episodio narrativo. Zubarán,
invece, mostra il santo eretto in un eterno istante liturgico, modellato dalla
luce e dall’ombra, dalla Grazia e dal velo. Solo il viso, la cui metà è immersa
nell’ombra, appare di carne, ma concorre a testimoniare la manifestazione
corporea di qualcuno che torna dal mondo dei morti in una epifania priva di
note terrifiche, poiché l’anima è colma di serenità soprannaturale e
beatitudine.
Anche
nell’ultima cappella di campagna, dove il profumo di povero incenso si confonde
a quello della cera stantìa, l’ingresso del sacerdote pronto alla celebrazione
del sacrificio ha la stessa radice sacra intuita dal visionario spagnolo, fatta
di divino che irrompe nel tempo. “Introibo ad altáre Dei. Ad Deum qui
laetificat juventútem meam”, e mentre si accosta all’altare di Dio, al Dio
che letifica la sua giovinezza, il sacerdote, se anche non può rivestirsi della
gloria dipinta da Zubarán, parla a ogni a creatura dell’universo velandosi con
i segni che portano le vestigia della gloria. E diventa davvero lietamente
giovane, che sia indegno peccatore, come racconta Graham Greene nel “Potere e
la gloria”, o che sia martire, come racconta Robert Hugh Benson, in “Con quale
autorità”.
“Uno
dei servi, accortosi, accortosi che non aveva la forza di indossare da solo le
vesti sacerdotali” narra Benson descrivendo la messa di un sacerdote torturato
dai carnefici anglicani “gli pose intorno al collo l’amitto; poi gli mise il
camice raccogliendolo intorno ai fianchi col cingolo; gli dette la stola da
baciare, gli adattò il manipolo al braccio sinistro e per ultimo lo coprì con
la rossa pianeta e il prete fu di nuovo, come la domenica precedente, in rosi
paramenti; ma ahimè, quanto cambiato! Quindi il servo gli si inginocchiò
accanto e il sacerdote incominciò a recitare le preghiere che servono di
preparazione all’atto più grande della religione; accostatosi poi all’altare,
si inchinò lentamente, lo baciò e la messa ebbe principio”.
Alessandro
Gnocchi
[Fonte il Foglio, 10 aprile 2014]
_________________________________
Nota Chiesa e post-concilio
_________________________________
Nota Chiesa e post-concilio
1.
Il manipolo è un paramento liturgico ormai adoperato soltanto nelle
celebrazioni della Santa Messa secondo la forma straordinaria del Rito Romano.
Si dice derivi da un fazzoletto (mappula) portato dai romani annodato al
braccio sinistro. Poiché la mappula si utilizzava per detergere il viso
da lacrime e sudore, gli scrittori ecclesiastici medievali hanno assegnato al
manipolo il simbolismo delle fatiche del sacerdozio. Esso tuttavia ricorda
anche l'asciugamano che cingeva il braccio del sacerdote ebreo durante il
sacrificio.
Si
ricorda anche il doppio senso della parola manipulum (che indica i fasci
di grano di chi miete). Così infatti la Vulgata rende il Salmo 125,5-6: «Qui
seminant in lacrimis in exultatione metent; euntes ibant et flebant portantes
semina sua, venientes autem venient in exultatione portantes manipulos suos»
(corsivo nostro).
Era
consegnato nel conferimento del suddiaconato con l'eloquente formula,
recitata dal sacerdote durante la vestizione: « Merear, Domine, portare
manipulum fletus et doloris: ut cum exultatione recipiam mercedem laboris.»
« Che io sia degno, o Signore, di portare il manipolo di pianto e dolore: così
con orgoglio raccoglierò la mercede del lavoro. » e mantenuto in tutti gli
altri gradi del Sacramento dell'Ordine (diaconato, presbiterato, episcopato).
L'abolizione degli Ordini Minori (trasformati in ministeri laicali) dalla Ministeria Quaedam di Paolo II non lo nomina. Tuttavia il suo uso è stato reso facoltativo dal 1967 dall'Istruzione Tres abhinc annos. Anche il Novus Ordo non ne fa cenno e il suo uso può essere considerato facoltativo ma di fatto, nella liturgia riformata, è stato abbandonato. [Maria Guarini, “La questione Liturgica. Il Rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Concilio Vaticano II”, in corso di riedizione]
Da notare che nella liturgia riformata il servizio all'Altare sostituito dalla tavola non è più previsto. Chi volesse approfondire cosa ho scritto su questo e sue implicazioni può farlo [qui]. Riporto solo un punto essenziale, per sapere cosa si perde. Secondo la Tradizione della Chiesa:
L'abolizione degli Ordini Minori (trasformati in ministeri laicali) dalla Ministeria Quaedam di Paolo II non lo nomina. Tuttavia il suo uso è stato reso facoltativo dal 1967 dall'Istruzione Tres abhinc annos. Anche il Novus Ordo non ne fa cenno e il suo uso può essere considerato facoltativo ma di fatto, nella liturgia riformata, è stato abbandonato. [Maria Guarini, “La questione Liturgica. Il Rito Romano usus antiquior e il Novus Ordo Missae a 50 anni dal Concilio Vaticano II”, in corso di riedizione]
Da notare che nella liturgia riformata il servizio all'Altare sostituito dalla tavola non è più previsto. Chi volesse approfondire cosa ho scritto su questo e sue implicazioni può farlo [qui]. Riporto solo un punto essenziale, per sapere cosa si perde. Secondo la Tradizione della Chiesa:
1.
l'episcopato si identifica nel sacerdozio
di Melchisedech (Sommo ed eterno Sacerdozio di Cristo) e ricorda quello di
Aronne
2.
i sacerdoti - presbiteri (anziani) (come i
72 mandati da Gesù) sono come i 70 anziani (i cohanim ebraico=cohen
è "colui che sta in piedi" davanti e alla guida dell'Assemblea); gli ordini
maggiori o sacri sono: suddiacono, diacono, sacerdote
3.
tutti gli altri ordini minori
(accolito, esorcista, lettore, portiere) si identificano con i leviti, e
cioè gli aggiunti gli aiutanti