Il Sacco di Roma: un castigo misericordioso
di Roberto de Mattei
La Chiesa vive un’epoca di sbandamento
dottrinale e morale. Lo scisma è deflagrato in Germania, ma il Papa non sembra
rendersi conto della portata del dramma. Un gruppo di cardinali e di vescovi
propugna la necessità di un accordo con gli eretici. Come sempre accade nelle
ore più gravi della storia, gli eventi si succedono con estrema rapidità.
Domenica 5 maggio 1527, un esercito calato dalla Lombardia giunse sul
Gianicolo.
L’imperatore Carlo V, irato per l’alleanza
politica del papa Clemente VII con il suo avversario, il re di Francia
Francesco I, aveva mosso un esercito contro la capitale della Cristianità.
Quella sera il sole tramontò per l’ultima volta sulle bellezze abbaglianti
della Roma rinascimentale. Circa 20 mila uomini, italiani, spagnoli e tedeschi,
tra i quali i mercenari Lanzichenecchi, di fede luterana, si apprestavano a
dare l’attacco alla Città Eterna. Il loro comandante aveva concesso loro
licenza di saccheggio.
Tutta la notte la campana del Campidoglio
suonò a storno per chiamare i romani alle armi, ma era ormai troppo tardi per
improvvisare una difesa efficace. All’alba del 6 maggio, favoriti da una fitta
nebbia, i Lanzichenecchi mossero all’assalto delle mura, tra Sant’Onofrio e
Santo Spirito. Le Guardie svizzere si schierarono attorno all’Obelisco del
Vaticano, decise a rimanere fedeli fino alla morte al loro giuramento. Gli
ultimi di loro si immolarono presso l’altar maggiore della Basilica di San
Pietro. La loro resistenza permise al Papa di riuscire a mettersi in fuga, con
alcuni cardinali.
Attraverso il Passetto del Borgo, via di
collegamento tra il Vaticano e Castel Sant’Angelo, Clemente VII raggiunse la
fortezza, unico baluardo rimasto contro il nemico. Dall’alto degli spalti il
Papa assisté alla terribile strage che cominciò con il massacro di coloro che
si erano accalcati alle porte del castello per trovarvi riparo, mentre i malati
dell’ospedale di Santo Spirito in Saxia venivano trucidati a colpi di lancia e
di spada.
La licenza illimitata di rubare e di uccidere
durò otto giorni e l’occupazione della città nove mesi. «L’inferno è nulla in
confronto colla veste che Roma adesso presenta», si legge in una relazione
veneta del 10 maggio 1527, riportata da Ludwig von Pastor (Storia dei Papi,
Desclée, Roma 1942, vol. IV, 2, p. 261).
I religiosi furono le principali vittime
della furia dei Lanzichenecchi. I palazzi dei cardinali furono depredati, le
chiese profanate, i preti e i monaci uccisi o fatti schiavi, le monache
stuprate e vendute sui mercati. Si videro oscene parodie di cerimonie
religiose, calici da Messa usati per ubriacarsi tra le bestemmie, ostie sacre
arrostite in padella e date in pasto ad animali, tombe di santi violate, teste
degli apostoli, come quella di sant’Andrea, usate per giocare a palla nelle
strade. Un asino fu rivestito di abiti ecclesiastici e condotto all’altare di
una chiesa. Il sacerdote che rifiutò di dargli la comunione fu fatto a pezzi.
La città venne oltraggiata nei suoi simboli religiosi e nelle sue memorie più
sacre (si veda anche André Chastel, Il Sacco di Roma, Einaudi, Torino 1983;
Umberto Roberto, Roma capta. Il Sacco della città dai Galli ai Lanzichenecchi,
Laterza, Bari 2012).
Clemente VII, della famiglia dei Medici non
aveva raccolto l’appello del suo predecessore Adriano VI ad una riforma
radicale della Chiesa. Martin Lutero diffondeva da dieci anni le sue eresie, ma
la Roma dei Papi continuava ad essere immersa nel relativismo e nell’edonismo.
Non tutti i romani però erano corrotti ed effeminati, come sembra credere lo
storico Gregorovius. Non lo erano quei nobili, come Giulio Vallati,
Giambattista Savelli e Pierpaolo Tebaldi, che inalberando uno stendardo con
l’insegna “Pro Fide et Patria”, opposero l’ultima eroica resistenza a Ponte
Sisto, né lo erano gli alunni del Collegio Capranica, che accorsero e morirono
a Santo Spirito per difendere il Papa in pericolo.
A quella ecatombe l’istituto ecclesiastico
romano deve il titolo di “Almo”. Clemente VII si salvò e governò la Chiesa fino
al 1534, affrontando dopo lo scisma luterano quello anglicano, ma assistere al
saccheggio della città, senza nulla poter fare, fu per lui più duro della morte
stessa. Il 17 ottobre 1528 le truppe imperiali abbandonarono una città in
rovina.
Un testimone oculare, spagnolo, ci dà un
quadro terrificante della città un mese dopo il Sacco: «A Roma, capitale della
cristianità, non si suona campana alcuna, non sì apre chiesa non si dice una
Messa, non c’è domenica né giorno di festa. Le ricche botteghe dei mercanti
servono per stalle per i cavalli, i più splendidi palazzi sono devastati, molte
case incendiate, di altre spezzate e portate via le porte e finestre, le strade
trasformate in concimaie. È orribile il fetore dei cadaveri: uomini e bestie
hanno la medesima sepoltura; nelle chiese ho visto cadaveri rosi da cani. Io
non so con che altro confrontare questo, fuorché con la distruzione di
Gerusalemme. Ora riconosco la giustizia di Dio, che non dimentica anche se
viene tardi. A Roma si commettevano apertissimamente tutti i peccati: sodomia,
simonia, idolatria ipocrisia, inganno; perciò non possiamo credere che questo
non sia avvenuto per caso. Ma per giudizio divino» (L. von Pastor, Storia dei
Papi, cit., p. 278).
Papa Clemente VII commissionò a Michelangelo
il Giudizio universale nella Cappella Sistina quasi per immortalare il dramma o
che subì, in quegli anni, la Chiesa di Roma. Tutti compresero che si trattava
di un castigo del Cielo. Non erano mancati gli avvisi premonitori, come un
fulmine che cadde in Vaticano e la comparsa di un eremita, Brandano da Petroio,
venerato dalle folle come “il pazzo di Cristo”, che nel giorno di giovedì santo
del 1527, mentre Clemente VII benediceva in San Pietro la folla, gridò:
«bastardo sodomita, per i tuoi peccati Roma sarà distrutta. Confessati e
convertiti, perché tra 14 giorni l’ira di Dio si abbatterà su di te e sulla
città».
L’anno prima, alla fine di agosto, le armate
cristiane erano state disfatte dagli Ottomani sul campo di Mohacs. Il re
d’Ungheria Luigi II Jagellone morì in battaglia e l’esercito di Solimano il
Magnifico occupò Buda. L’ondata islamica sembrava inarrestabile in Europa.
Eppure l’ora del castigo fu, come sempre l’ora della misericordia. Gli uomini di
Chiesa compresero quanto stoltamente avessero inseguito le lusinghe dei piaceri
e del potere. Dopo il terribile Sacco la vita cambiò profondamente.
La Roma gaudente del Rinascimento si
trasformò nella Roma austera e penitente della Contro-Riforma. Tra coloro che
soffrirono nel Sacco di Roma, fu Gian Matteo Giberti, vescovo di Verona, ma che
allora risiedeva a Roma. Imprigionato dagli assedianti giurò che non avrebbe
mai abbandonato la sua residenza episcopale, se fosse stato liberato. Mantenne
la parola, tornò a Verona e si dedicò con tutte le sue energie alla riforma
della sua diocesi, fino alla morte nel 1543.
San Carlo Borromeo, che sarà poi il modello
dei vescovi della Riforma cattolica si ispirerà al suo esempio. Erano a Roma
anche Carlo Carafa e san Gaetano di Thiene che, nel 1524, avevano fondato
l’ordine dei Teatini, un istituto religioso irriso per la sua posizione
dottrinale intransigente e per l’abbandono alla Divina Provvidenza spinto al
punto di aspettare l’elemosina, senza mai chiederla. I due cofondatori
dell’ordine furono imprigionati e torturati dai Lanzichenecchi e scamparono
miracolosamente alla morte.
Quando Carafa divenne cardinale e presidente
del primo tribunale della Sacra romana e universale Inquisizione volle accanto
a sé un altro santo, il padre Michele Ghislieri, domenicano. I due uomini,
Carafa e Ghislieri, con i nomi di Paolo IV e di Pio V, saranno i due Papi per
eccellenza della Contro-Riforma cattolica del XVI secolo. Il Concilio di Trento
(1545-1563) e la vittoria di Lepanto contro i Turchi (1571) dimostrarono che,
anche nelle ore più buie della storia, con l’aiuto di Dio è possibile la
rinascita: ma alle origini di questa rinascita ci fu il castigo purificatore
del Sacco di Roma. (Roberto de Mattei