Riportiamo il testo della conferenza tenuta il 5
dicembre 2016 a Roma, presso la Fondazione Lepanto, da mons. Atanasio
Schneider.
Quando Nostro Signore Gesù Cristo ha predicato le
verità eterne due mila anni fa, la cultura o lo spirito regnante di quel tempo
Gli erano radicalmente contrari. In concreto lo erano il sincretismo religioso,
lo gnosticismo delle élite intellettuali e il permissivismo morale delle masse,
specialmente riguardo all’istituto del matrimonio. “Egli era nel mondo,
eppure il mondo non lo riconobbe” (Giov. 1, 10).
La gran parte del popolo d’Israele, ed in particolare
i sommi sacerdoti, gli scribi e i farisei hanno rigettato il Magistero della
rivelazione Divina di Cristo e persino la proclamazione dell’assoluta
indissolubilità del matrimonio: “Venne fra la Sua gente, ma i suoi non
l’hanno accolto” (Giov. 1, 11). L’intera missione del Figlio di Dio sulla
terra consisteva nel rivelare la verità: “Per questo sono venuto nel mondo
per rendere testimonianza alla verità” (Giov. 18, 37).
Nostro Signore Gesù Cristo è morto sulla Croce per
salvare gli uomini dai peccati, offrendo se stesso in perfetto e gradito
sacrificio di lode e di espiazione a Dio Padre. La morte redentrice di Cristo
contiene anche la testimonianza che Egli dava di ogni Sua parola. Cristo era
pronto a morire per la verità di ciascuna delle
Sue parole: “Voi cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da
Dio. Per quale motivo non comprendete il mio linguaggio? Perché non potete dare
ascolto alla mia parola. Voi avete per padre il diavolo e volete compiere
i desideri del padre vostro. Egli era omicida fin da principio e non stava
saldo nella verità, perché in lui non c’è verità. Quando dice il falso, dice
ciò che è suo, perché è menzognero e padre della menzogna. A me, invece,
voi non credete, perché dico la verità. Chi di voi può dimostrare che ho
peccato? Se dico la verità, perché non mi credete?” (Giov. 8, 40-46). La
prontezza di Gesù nel morire per la verità includeva tutte le verità da Lui
annunziate, certamente anche la verità dell’indissolubilità assoluta del
matrimonio.
Gesù Cristo è il restauratore dell’indissolubilità e
della santità originaria del matrimonio non soltanto per mezzo della Sua parola
Divina, ma in modo più radicale per mezzo della Sua morte redentrice, con la
quale Egli ha elevato la dignità creata e naturale del matrimonio alla dignità
di sacramento. “Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per
lei, per renderla santa. […] Nessuno infatti ha mai odiato la propria
carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché
siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre
e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Questo mistero è
grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa!” (Ef. 5,
25.29-32). Per questa ragione anche al matrimonio si applicano le seguenti
parole della preghiera della Chiesa: “Dio che in modo meraviglioso creasti
la dignità della natura umana e in maniera ancora più meravigliosa la
riformasti”.
Gli Apostoli e i suoi successori, in primo luogo i
Romani Pontefici, successori di Pietro, hanno santamente custodito e fedelmente
trasmesso la dottrina non negoziabile del Verbo Incarnato sulla santità e
indissolubilità del matrimonio anche riguardo alla prassi pastorale. Questa
dottrina di Cristo è espressa nelle seguenti affermazioni degli Apostoli: “Il
matrimonio sia onorato ed il talamo sia senza macchia. I fornicatori e gli
adulteri saranno giudicati da Dio” (Ebr. 13, 4) e “Agli sposati ordino,
non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito, e qualora si separi,
rimanga senza sposarsi, e il marito non ripudi la moglie” (1 Cor. 7,
10-11). Queste parole ispirate dallo Spirito Santo furono sempre proclamate
nella Chiesa durante due mila anni, servendo come un’indicazione vincolante e
come norma indispensabile per la disciplina sacramentale e per la vita pratica
dei fedeli.
Il comandamento di rimanere senza sposarsi dopo una
separazione dal proprio coniuge legittima, non è nel fondo una norma positiva o
canonica della Chiesa, ma è parola di Dio, come insegnava l’apostolo San Paolo:
“Ordino non io, ma il Signore” (1 Cor. 7, 10). La Chiesa ha
ininterrottamente proclamato queste parole, vietando ai fedeli validamente
sposati di attentare il matrimonio con un nuovo partner. Di conseguenza, la
Chiesa secondo la logica Divina e umana non ha la competenza di approvare
nemmeno implicitamente una convivenza more uxorio al di fuori di un
valido matrimonio, ammettendo tali persone adultere alla Santa Comunione.
Un’autorità ecclesiastica che emana norme o
orientamenti pastorali che prevedono una tale ammissione, si arroga un diritto
che Dio non le ha dato. Un accompagnamento e discernimento pastorale che non
propone alle persone adultere, i cosiddetti divorziati risposati, l’obbligo
divinamente stabilito di vivere in continenza come condizione sine qua non
all’ammissione ai sacramenti, si rivela in realtà come un clericalismo
arrogante. Poiché non esiste un clericalismo più farisaico che quello che si
arroga diritti divini.
Uno dei più antichi ed inequivocabili testimoni
dell’immutabile prassi della Chiesa Romana di non accettare per mezzo della
disciplina sacramentale la convivenza adulterina dei fedeli, che sono ancora
legati al loro legittimo coniuge tramite il vincolo matrimoniale, è l’autore di
una catechesi penitenziale conosciuta sotto il titolo pseudonimo Il Pastore
di Erma. La catechesi è stata scritta con molta probabilità da un
presbitero romano all’inizio del secondo secolo sotto la forma letteraria di un’apocalisse
o di un racconto di visioni.
Il seguente dialogo tra Erma e l’angelo della
penitenza che gli appare nella forma di un pastore, dimostra con ammirevole
chiarezza l’immutabile dottrina e prassi della Chiesa cattolica in questa
materia: “Che cosa, Signore, farà il marito se la moglie persiste in questa
passione dell’adulterio?”. “L’allontani e il marito rimanga per sé solo. Se
dopo aver allontanato la moglie sposa un’altra donna, anch’egli commette
adulterio“. “Se, signore, la moglie, dopo che è stata allontanata, si
pente e vuole ritornare dal marito non sarà ripresa?”. “Sì, dice; e se
il marito non la riceve pecca e si addossa una grande colpa. Deve, invece,
ricevere chi ha peccato e si è pentito. […] A causa della possibilità di tale
pentimento, il marito non deve risposarsi. Questa direttiva vale sia per la
donna che per l’uomo. Non solo si ha adulterio se uno corrompe la propria
carne, ma anche chi compie cose simili ai pagani è un adultero. […] Per questo
vi fu ordinato di rimanere da soli, per la donna e per l’uomo. Vi può essere in
loro pentimento, … ma chi ha peccato non pecchi più” (Herm. Mand.,
IV, 1, 6-11).
Sappiamo che il primo grande peccato clericale fu il
peccato del sommo sacerdote Aronne, quando costui cedette alle domande
impertinenti dei peccatori e permise loro di venerare l’idolo del vitello d’oro
(cfr. Es. 32, 4), sostituendo in questo concreto caso il Primo Comandamento del
Decalogo di Dio, cioè sostituendo la volontà e la parola di Dio, con la volontà
peccatrice dell’uomo. Aronne giustificava questo suo atto di clericalismo
esasperato con il ricorso alla misericordia e alla comprensione con le esigenze
degli uomini. La Sacra Scrittura dice appunto: “Mosè vide che il popolo non
aveva più freno, perché Aronne avevo tolto ogni freno al popolo, così da farne
il ludibrio dei loro avversari” (Es. 32, 25).
Si ripete oggi nuovamenre nella vita della Chiesa,
quel primo peccato clericale. Aronne aveva dato il permesso di peccare contro
il Primo Comandamento del Decalogo di Dio e di poter essere allo stesso tempo
sereni e lieti nel farlo, e la gente appunto danzava. Si trattava in quel caso
di una letizia nell’idolatria: “Il popolo sedette per mangiare e bere, poi
si alzo per darsi al divertimento” (Es. 32, 6). Invece del Primo
Comandamento come era al tempo di Aronne, parecchi chierici, anche ai più alti
livelli, sostituiscono ai nostri giorni il Sesto Comandamento con il nuovo
idolo della pratica sessuale tra persone non validamente sposate, che è in un
certo senso il vitello d’oro venerato dai chierici dei nostri giorni.
L’ammissione di tale persone ai sacramenti senza
chieder loro la vita in continenza come condicio sine qua non, significa
nel fondo un permesso di non dover osservare in questo caso il Sesto
Comandamento. Tali chierici, come nuovi “Aronne”, tranquillizzano queste
persone, dicendo che possono essere serene e liete, cioè continuare nella gioia
dell’adulterio a causa di una nuova “via caritatis” e del senso
“materno“ della Chiesa e che possono persino ricevere il cibo Eucaristico. Con
tale orientamento pastorale i nuovi “Aronne” clericali fanno del popolo
cattolico il ludibrio dei loro nemici, cioè del mondo non credente e immorale,
il quale potrà davvero dire, ad esempio:
·
Nella Chiesa cattolica si può avere un
nuovo partner accanto al proprio coniuge, e la convivenza con lui è ammessa
nella prassi
·
Nella Chiesa cattolica è ammessa di
conseguenza una specie di poligamia.
·
Nella Chiesa cattolica l’osservanza del
Sesto Comandamento del Decalogo, tanto odiato da parte della nostra società
moderna ecologica ed illuminata, può avere delle legittime eccezioni.
·
Il principio del progresso morale
dell’uomo moderno, secondo il quale si deve accettare la legittimità degli atti
sessuali fuori del matrimonio, è finalmente riconosciuto accettare in maniera
implicita dalla Chiesa cattolica, che era stata sempre retrograda, rigida e
nemica della letizia dell’amore e del progresso morale dell’uomo moderno.
Così già cominciano parlare i nemici di Cristo e della
verità Divina, che sono i veri nemici della Chiesa. Per opera del nuovo
clericalismo aronnitico l’ammissione degli adulteri praticanti ed impenitenti
ai sacramenti, rende i figli della Chiesa Cattolica ludibrio di fatto dei loro
avversari.
Rimane sempre una grande lezione e una serio
ammonimento ai Pastori e ai fedeli della Chiesa il fatto che il Santo che per
primo diede la sua vita come testimone di Cristo, fu San Giovanni Battista, il
Precursore del Signore. La sua testimonianza per Cristo consisteva nel difendere
senza ombra di dubbi e di ambiguità l’indissolubilità del matrimonio e nel
condannare l’adulterio. La storia della Chiesa cattolica si gloria di possedere
esempi luminosi che hanno seguito l’esempio di San Giovanni Battista o hanno
dato come lui la testimonianza del sangue, soffrendo delle persecuzioni e
svantaggi personali. Questi esempi devono guidare specialmente i Pastori della
Chiesa dei nostri giorni, perché non cedano alla tipica tentazione clericale di
voler piacere più agli uomini che alla santa ed esigente volontà di Dio, una
volontà allo stesso tempo amorevole e sommamente saggia.
Tra la numerosa schiera di tanti imitatori di San
Giovanni Battista come martiri e confessori dell’indissolubilità del
matrimonio, possiamo ricordare solo alcuni più significativi. Il primo grande
testimone fu il Papa San Nicolò I, detto il Grande. Si tratta dello scontro nel
secolo IX tra Papa Niccolò I e Lotario II re di Lotaringia. Lotario,
inizialmente unito, ma non sposato, con una aristocratica di nome Gualdrada,
poi unitosi in matrimonio con la nobile Teutberga per interessi politici e poi
ancora separatosi da questa e sposatosi con la precedente compagna, volle a
tutti i costi che il Papa riconoscesse la validità del suo secondo matrimonio.
Ma nonostante Lotario godesse dell’appoggio dei vescovi della sua regione e del
sostegno dell’imperatore Ludovico, che arrivò ad invadere Roma col suo
esercito, papa Niccolò I non si piegò alle sue pretese e non riconobbe mai come
legittimo il suo secondo matrimonio.
Lotario II re di Lorena, dopo aver respinta e chiusa
in un monastero la sua consorte Teutberga, conviveva con una certa Valdrada e
ricorrendo a calunnie, minacce, torture, richiedeva ai vescovi locali il
divorzio per poterla sposare. I vescovi di Lorena, nel Sinodo di Aquisgrana
dell’862, cedendo alle astuzie del Re, accettarono la confessione d’infedeltà
di Teutberga, senza tener conto che le era stata estorta con la violenza. Lotario
II sposò quindi Valdrada che divenne regina. Seguì un appello della
deposta Regina al Papa, il quale intervenne contro i vescovi consenzienti
suscitando disubbidienze, scomuniche e ritorsioni da parte di due di loro, i
quali si rivolsero all’imperatore Lodovico II, fratello di Lotario.
L’imperatore Ludovico decise di agire con la forza e
al principio dell’864 venne a Roma con le armi, invadendo con i suoi soldati la
città leonina, disperdendo anche le processioni religiose. Papa Niccolò dovette
lasciare il Laterano e rifugiarsi in S. Pietro e il Papa si disse pronto di
morire piuttosto che permettere una vita more uxorio al di fuori del
valido matrimonio. Infine l’imperatore cedette alla costanza eroica del Papa e
accettò i auoi decreti del Papa, costringendo anche i due arcivescovi ribelli
Guntero di Colonia e Teutgardo di Treviri ad accettare la sentenza papale.
Il cardinale Walter Brandmüller dà la seguente
valutazione di questo caso emblematico della storia della Chiesa: “Nel caso
esaminato, ciò significa che dal dogma dell’unità, della sacramentalità e
dell’indissolubilità, radicati nel matrimonio tra due battezzati, non c’è una
strada che porti indietro, se non quella – inevitabile e per questo da
rigettare – del ritenerli un errore dal quale emendarsi. Il modo di agire di
Niccolò I nella disputa sul nuovo matrimonio di Lotario II, tanto consapevole
dei principi quanto inflessibile ed impavido, costituisce una tappa importante
sul cammino per l’affermazione dell’insegnamento sul matrimonio nell’ambito culturale
germanico. Il fatto che il Papa, come anche suoi diversi successori in
occasioni analoghe, si sia dimostrato avvocato della dignità della persona e
della libertà dei deboli – per la maggior parte erano donne – ha fatto meritare
a Niccolò I il rispetto della storiografia, la corona della santità ed il
titolo di Magnus“.
Un altro esempio luminoso di confessori e martiri
dell’indissolubilità del matrimonio ci è offerto da tre personaggi storici coinvolti
nella vicenda del divorzio di Enrico VIII, Re d’Inghilterra. Si tratta del
cardinale san Giovanni Fisher, di san Tommaso Moro e del cardinale Reginaldo
Pole.
Quando si seppe per la prima volta che Enrico VIII
stava cercando delle strade attraverso cui divorziare dalla sua legittima
moglie Caterina d’Aragona, il vescovo di Rochester, Giovanni Fisher, si oppose
pubblicamente a tali tentativi. San Giovanni Fisher è autore di sette
pubblicazioni in cui condanna il divorzio imminente di Enrico VIII. Il Primate
d’Inghilterra il cardinale Wolsey e tutti i vescovi del paese, con l’eccezione
del vescovo di Rochester John Fisher appoggiarono il tentativo del Re di
sciogliere il suo primo e valido matrimonio. Forse lo fecero fper motivi
pastorali e adducendo la possibilità di un accompagnamento e discernimento pastorale.
Invece, il vescovo Giovanni Fisher ebbe persino il
coraggio di fare una dichiarazione molto chiara nella Camera dei Lord.s
affermando, che il matrimonio era legittimo, che un divorzio sarebbe stato
illegale e che il Re non aveva il diritto di avanzare su questa strada. Nella
stessa sessione del Parlamento fu approvato il famoso “Act of Succession”,
con il quale tutti cittadini dovevano fare il giuramento di successione,
riconoscendo la prole di Enrico e Anna Boleyn come legittimi eredi del trono, sotto
pena di essere colpevoli del crimine di alto tradimento. Il cardinale Fisher
rifiutò il giuramento, fu imprigionato nel 1534 nella Torre di Londra e l’anno
seguente fu decapitato.
Il cardinale Fisher aveva dichiarato, che nessun
potere sia umano o Divino, poteva sciogliere il matrimonio del Re e della
Regina, perché il matrimonio era indissolubile e che lui sarebbe stato pronto a
dare volentieri la sua vita per questa verità. Il cardinale Fisher notava in
quella circostanza che Giovanni Battista non vedeva altra strada per morire più
gloriosamente che morire per la causa del matrimonio, nonostante il fatto che
il matrimonio non era così sacro a quel tempo come lo divenne quando Cristo
versò il Suo Sangue per santificare il matrimonio.
In almeno due racconti del suo processo, san Tommaso
Moro osservò che la vera causa dell’inimicizia di Enrico VIII contro di lui,
era il fatto che Tommaso Moro non credeva che Anna Boleyn fose la moglie di
Enrico VIII. Una delle cause dell’incarcerazione di Tommaso Moro fu il suo
rifiuto di affermare con giuramento la validità del matrimonio tra Enrico VIII
e Anna Boleyn. In quel tempo, al contrario del nostro, nessun cattolico credeva
che una relazione adultera avrebbe potuto, in determinate circostanze o per
motivi pastorali, essere trattata come se essa fosse un vero matrimonio.
Reginaldo Pole, futuro cardinale, era un lontano
cugino di Re Enrico VIII, e nella sua gioventù aveva ricevuto da lui una
generosa borsa di studio. Enrico VIII gli offri l’arcivescovado di York nel
caso che egli lo avesse appoggiato nella causa del divorzio. Così Pole avrebbe
dovuto essere complice nel disprezzo che Enrico VIII aveva per il matrimonio.
Durante un colloquio con il Re nel palazzo reale, Reginaldo Pole gli disse che
egli non poteva approvare i suoi piani, per la salvezza dell’anima del Re e a
causa della propria coscienza. Nessuno, fino a quel momento, aveva osato
opporsi al Re a viso aperto. Quando Reginaldo Pole pronunciò queste sue parole,
il Re si adirò al punto di prendere il suo pugnale. Pole pensò in quel momento
che il Re lo avrebbe accoltellato. Però la semplicità candida con la quale
parlava Pole come se lui avesse pronunciato un messaggio di Dio, e il suo
coraggio nella presenza di un tiranno, gli salvarono la vita.
Alcuni chierici in quel tempo suggerirono al cardinale
Fisher, al cardinale Pole e a Tommaso More di essere più “realisti” nella
vicenda dell’unione irregolare e adultera di Enrico VIII con Anna Boleyn e meno
“nero-bianco” e che forse si sarebbe potuto fare un breve processo canonico per
constatare la nullità del primo matrimonio. Con questo si sarebbe potuto
evitare lo scisma e impedire a Enrico VIII di commettere ulteriori gravi e
mostruosi peccati. Tuttavia contro un tale ragionamento esiste un grande
problema: l’intera testimonianza della Parola rivelata di Divina e
dell’ininterrotta tradizione della Chiesa dicono che non si può rinnegare la
realtà dell’indissolubilità di un vero matrimonio o tollerare un adulterio
consolidato nel tempo, quali che siano le circostanze.
Un ultimo esempio è la testimonianza dei cosiddetti
cardinali “neri” nella vicenda del divorzio di Napoleone I, un nobile e
glorioso esempio di membri collegio cardinalizio per tutti i tempi. Nel 1810 il cardinale
Ercole Consalvi, allora Segretario di Stato, rifiutò di assistere alla
celebrazione del matrimonio fra Napoleone I e Maria Luisa
d’Austria, visto che il Papa non aveva potuto esprimersi
sull’invalidità della prima unione fra l’Imperatore e Giuseppina
Beauharnais. Furioso, Napoleone ordinò che i beni del Consalvi e di
altri 12 cardinali fossero confiscati e che essi fossero privati del loro
rango. Questi cardinali avrebbero dovuto quindi vestire come normali sacerdoti
e furono perciò soprannominati i “cardinali neri”. Il cardinale Consalvi
raccontò la vicenda dei 13 cardinali “neri” nelle sue Memorie:
“Nello stesso giorno noi ci trovammo obligati a più
non far uso delle insegne cardinalizie e a vestire di nero, dal che nacque
poi la denominazione dei “Neri” e dei “Rossi”, con cui furono distinte le due
parti del Collegio. … Fu un prodigio che, avendo nel primo furore dato
l’Imperatore l’ordine di fucilare 3 dei 13 cardinali, cioè Opizzoni, me
[Cadinale Consalvi] e un terzo, che non si è saputo chi fosse (forse fu il
Cardinale di Pietro), ed essendosi poi limitato a me solo, la cosa non si
realizzasse”.
Poi il cardinale Consalvi racconta più
dettagliatamente: “Dopo molte deliberazioni fra noi 13, si concluse che
agli inviti dell’Imperatore, che risguardavano il matrimonio, non saremmo
intervenuti, cioè non all’ecclesiastico per la ragione detta di
sopra, non al civile perché non credevamo che convenisse a dei
Cardinali autorizzare con la loro presenza la nuova legislazione, che separa un
tale atto dalla così chiamata benedizione nuziale, prescindendo, anche dal
supporre con quell’atto medesimo già sciolto quel precedente vincolo, che noi
non credevamo sciolto legitimamente. Decidemmo dunque di non intervenire.
Quando si fece il matrimonio civile in S. Cloud i 13 non intervennero. Arrivò
il giorno, in cui si fece il matrimonio ecclesiastico. Si videro preparate
le sedie per tutti i Cardinali, non essendosi perduta sino alla fine la
speranza che almeno a quello, che era ciò che più interessava la Corte, tutti
interverrebbero. Ma i 13 cardinali non vi intervennero. Gli altri 14 cardinali
intervennero. … Quando l’Imperatore entrò nella cappella, il suo primo sguardo
fu al luogo dove erano i Cardinali e, al vederne il solo numero 14, dimostrò
nel viso tanto furore, che tutti gli astanti se ne avvidero manifestamente”.
“Arrivò così il giorno della resa dei conti. Giunti
tutti i 13 cardinali dal Ministro dei Culti, fummo introdotti nella sua
camera, dove trovammo anche il Ministro della Polizia Fouché. Appena
entrati, il Ministro Fouché ch’era al camino, a cui io mi accostai per
salutarlo, mi disse a voce bassa: «Ve lo predissi io, Sig. Cardinale, che le
conseguenze sarebbero state terribili: quello che mi trafigge è il veder
Voi nel numero delle vittime». Prende la parola il Ministro dei Culti ed accusa
il Cardinale ed i suoi 12 colleghi di complotto. Di questo delitto,
vietato e punito severissimamente dalle leggi veglianti, si trovava nella
dispiacevole necessità di manifestarci gli ordini di Sua Maesta a nostro
riguardo, i quali si riducevano a queste tre cose, cioè: 1° che i nostri
beni non meno ecclesiastici, che patrimoniali rimanevano fin da quel
momento a noi tolti e posti sotto sequestro, dichiarandocene affatto
spogliati e privati; 2° che ci si vietava di più far uso delle insegne
cardinalizie e di qualunque divisa della nostra dignità, non considerandoci
più Sua Maestà come Cardinali; 3° che Sua Maestà si riservava di statuire in
appresso sulle nostre persone, alcune delle quali ci fece intendere
che sarebbero state messe sotto un giudizio. … Nello stesso giorno dunque noi
ci trovammo obbligati a più non far uso delle insegne cardinalizie e a vestire
di nero, dal che nacque poi la denominazione dei Neri
e dei Rossi, con cui furono distinte le due parti del Collegio”.
Voglia lo Spirito Santo suscitare in tutti i membri
della Chiesa, dal più semplice e umile fedele fino al Supremo Pastore sempre
più numerosi e coraggiosi difensori della verità dell’indissolubilità del
matrimonio e della corrispondente prassi immutabile della Chiesa, anche se a
causa di tale difesa essi rischiassero considerevoli svantaggi personali. La
Chiesa deve più che mai adoperarsi nell’annuncio della dottrina e nella pastorale
matrimoniale, affinché nella vita dei coniugi e specialmente dei cosiddetti
divorziati risposati sia osservato quello che lo Spirito Santo ha detto nella
Sacra Scrittura: “Il matrimonio sia onorato ed il talamo sia senza macchia”
(Eb. 13, 4). Solo una pastorale matrimoniale, che prenda ancora sul serio
questa parole di Dio, si rivela come veramente misericordiosa, poiché conduce
le anime peccatrici sulla strada sicura della vita eterna. E questo è ciò che
conta.
tratto da: http://www.corrispondenzaromana.it/la-grandezza-non-negoziabile-del-matrimonio-cristiano/