sabato 27 ottobre 2012

una potente manifestazione del munus Petrinum


DICHIARAZIONE DELLA PONTIFICIA COMMISSIONE “ECCLESIA DEI”

 
Città del Vaticano, 27 ottobre 2012 (VIS). Di seguito riportiamo la dichiarazione rilasciata questa mattina dall Pontificia Commissione "Ecclesia Dei":

La Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” coglie l’occasione per annunciare che, nella sua più recente comunicazione (6 settembre 2012) la Fraternità sacerdotale di S. Pio X ha indicato di aver bisogno per parte sua di ulteriore tempo di riflessione e di studio, per preparare la propria risposta alle ultime iniziative della Santa Sede.
Lo stadio attuale delle attuali discussioni fra la Santa Sede e la Fraternità sacerdotale è frutto di tre anni di dialoghi dottrinali e teologici, durante i quali una commissione congiunta si è riunita otto volte per studiare e discutere, fra le altre questioni, alcuni punti controversi nell’interpretazione di certi documenti del Concilio Vaticano II. Quando tali dialoghi dottrinali si conclusero, fu possibile procedere ad una fase di discussione più direttamente focalizzata sul grande desiderio di riconciliazione della Fraternità sacerdotale di S. Pio X con la Sede di Pietro.
Altri passi fondamentali in questo processo positivo di graduale reintegrazione erano stati intrapresi dalla Santa Sede nel 2007 mediante l’estensione alla Chiesa universale della Forma Straordinaria del Rito Romano con il Motu Proprio Summorum Pontificum e, nel 2009, con l’abolizione delle scomuniche. Solo alcuni mesi orsono in questo cammino difficile fu raggiunto un punto fondamentale quando, il 13 giugno 2012, la Pontificia Commissione ha presentato alla Fraternità sacerdotale di S. Pio X una dichiarazione dottrinale unitamente ad una proposta per la normalizzazione canonica del proprio stato all’interno della Chiesa cattolica.
Attualmente la Santa Sede è in attesa della risposta ufficiale dei Superiori della Fraternità sacerdotale a questi due documenti. Dopo trent’anni di separazione, è comprensibile che vi sia bisogno di tempo per assorbire il significato di questi recenti sviluppi. Mentre il nostro Santo Padre Benedetto XVI cerca di promuovere e preservare l’unità della Chiesa mediante la realizzazione della riconciliazione a lungo attesa della Fraternità sacerdotale di S. Pio X con la Sede di Pietro – una potente manifestazione del munus Petrinum all’opera– sono necessarie pazienza, serenità, perseveranza e fiducia.
 
 
Che dire? La Santa Sede risponde positivamente alla dimissione di Mons. Willianson. La porta rimane aperta.... speriamo non sia resa troppo stretta.

giovedì 25 ottobre 2012

La Chiesa militante non si ritira


mercoledì 24 ottobre 2012

"La principale caratteristica dei testi conciliari è non a caso l’ambiguità." (Robero de Mattei)

 
Quando la tradizione fu opacizzata 
di Robertode Mattei su Il Foglio del 09-10-2012)
 
Fu evento storico più importante nei modi che nei testi prodotti Continuità o rottura? E’ forse giunto il momento di uscire dalla gabbia ermeneutica in cui si dibattono gli studiosi del Concilio Vaticano II. Tutti coloro che affrontano la discussione storiografica sul Concilio, mettendone in luce, da diverse angolature, gli elementi di oggettiva “svolta” con l’epoca precedente, vengono infatti sbrigativamente etichettati come sostenitori dell’“ermeneutica della discontinuità”, in contrasto con il magistero di Benedetto XVI e dei suoi predecessori.
Questo è ad esempio il sovrano metro di giudizio di monsignor Agostino Marchetto, nel suo recente volume Il Concilio Ecumenico Vaticano II. Per la sua corretta ermeneutica (Libreria Editrice Vaticana, 2012) come lo era stato del resto nel suo precedente studio Il Concilio ecumenico Vaticano II. Contrappunto per la sua storia (Libreria Editrice Vaticana, 2005).
In questi due libri più che storico, monsignor Marchetto si dimostra attento recensore di tutto ciò che nell’ultimo decennio è stato pubblicato in tema di Vaticano II. Non è questo necessariamente un limite. Il limite è quello di lanciare sugli autori recensiti, a destra e a sinistra, accuse di “discontinuismo”, facendosi scudo di un presunto magistero a questo riguardo per coprire una sostanziale debolezza argomentativa. Benedetto XVI però, nel suo discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, ha dichiarato che all’ermeneutica della discontinuità non si oppone un’ermeneutica della continuità tout court, ma un’“ermeneutica della riforma” la cui vera natura consiste in un “insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi”. Forse è proprio dalla constatazione dell’esistenza di livelli diversi di continuità e di discontinuità che bisognerebbe procedere.
Continuità o discontinuità del Vaticano II nei confronti della chiesa precedente che può essere considerata sotto due aspetti: la dimensione storica e umana della chiesa e la sua dimensione ontologica, che si esprime nella immutabilità della sua Tradizione. Una distinzione che corrisponde alla duplice natura della chiesa, umana e divina e che rende il discorso ben più articolato e ricco di sfumature di quanto monsignor Marchetto e altri autori vorrebbero. Il primo livello di indagine spetta allo storico, che ha come criterio veritativo quello dell’accertamento e della valutazione dei fatti. Il secondo livello appartiene al teologo, al pastore e, in ultima istanza, al Sommo Pontefice, supremo custode delle verità di fede e di morale. Si tratta di due piani distinti, ma connessi e interdipendenti, come lo sono l’anima e il corpo nell’organismo umano. Ma è solo dopo la ricostruzione storica, non prima, che intervengono i pastori, per formulare i loro giudizi
teologici e morali.
I due livelli, quello storico e quello ermeneutico non si possono confondere, a meno di non ritenere che la storia coincida con la sua interpretazione. Ciò significa che il Concilio Vaticano II deve essere affrontato non solo sul piano teologico, ma innanzitutto, sul piano storico come evento. Il teologo eserciterà la sua riflessione sui testi, lo storico, senza trascurare i testi, riserverà la sua attenzione soprattutto alla loro genesi, alle loro conseguenze, al contesto in cui essi si situano. Sia lo storico che il teologo cercano la verità, che è la medesima, ma vi arrivano per vie diverse, non contrapposte.
Sembra che sia stato il cardinale Ruini ad affidare a Marchetto il compito di contrastare l’opera storica, di segno ultraprogressista, di Giuseppe Alberigo e della sua “scuola di Bologna”. Ma contro la storia tendenziosa di Alberigo e dei suoi continuatori non è sufficiente affermare che i documenti del Concilio devono essere letti in continuità e non in rottura con la Tradizione.
Quando nel 1619 Paolo Sarpi scrisse una storia eterodossa del Concilio di Trento, non gli furono contrapposte le formule dogmatiche di Trento, ma gli fu opposta una storia diversa, la celebre Storia del Concilio di Trento scritta per ordine del Papa Innocenzo X dal cardinale Pietro Sforza Pallavicino (1656-1657): la storia infatti si combatte con la storia, non con le affermazioni teologiche. E’ questo il motivo per cui le critiche che Marchetto rivolge al mio studio Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta (Lindau, 2011), sono pallottole a salve fuori bersaglio. Non sono infatti né un “discontinuista”, come Marchetto si ostina a ripetere, né un “continuista”, perché giudico questo termine altrettanto privo di significato del precedente.
Sono più semplicemente uno storico che si propone di raccontare in maniera vera e oggettiva quanto è accaduto, non solo nei tre anni in cui si svolse il Concilio Vaticano II, dall’11 ottobre 1962 all’8 dicembre 1965, ma negli anni che lo precedettero e in quelli che a esso immediatamente seguirono, l’epoca del cosiddetto “postconcilio”. Faccio mio l’auspicio che il cardinale Ruini rivolgeva il 22 giugno 2005 all’impresa di monsignor Marchetto (“è tempo che la storiografia produca una nuova ricostruzione del Vaticano II che sia anche, finalmente, una storia di verità”) ma non credo che sia produttivo nascondere la verità storica dietro il velo di una malintesa “ermeneutica della continuità” Discordo radicalmente dalla lettura del Concilio che lo storico di Bologna Giuseppe Ruggieri propone nel suo recente Ritrovare il concilio (Einaudi, 2012), ma non posso dargli torto quando afferma che il compito dello storico consiste “nel conoscere, a partire dalle fonti, cosa sia veramente accaduto e nel comprendere il significato effettivo di ciò che è veramente accaduto” e spiega perché il Concilio Vaticano non è riducibile alle sue decisioni (pp. 7-11).
Ho già avuto occasione di scriverlo: i Concili possono promulgare dogmi, verità, decreti, canoni, che sono emanati dal Concilio, ma che non sono il Concilio. Il Concilio è diverso dalle sue decisioni, che solo quando sono infallibilmente promulgate entrano a far parte della Tradizione (Apologia della Tradizione. Poscritto a Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta). Come negare che il Concilio Vaticano II abbia avuto una sua “specificità” rispetto ad altri eventi storici e che abbia rappresentato, per molti aspetti, una “Rivoluzione”? Lo attestano le testimonianze che in occasione dei cinquant’anni dell’apertura del Concilio ha raccolto Avvenire, come quella del sociologo canadese Charles Taylor, che ricorda l’evento con queste parole: “Era come la caduta di Gerico” (Avvenire, 26 luglio 2012).
La principale novità del Vaticano II fu la sua natura pastorale. Il cardinale Walter Brandmüller lo ha spiegato bene. I Concili esercitano, sotto e con il Papa, un solenne magistero in materia di fede e di morale e si pongono come supremi giudici e legislatori in materia di diritto e di disciplina della chiesa, ma il Vaticano II, al contrario dei precedenti Concili, “non ha esercitato la giurisdizione né legiferato, né deliberato su questioni di fede in via definitiva. Esso è stato piuttosto un nuovo tipo di Concilio, in quanto si è concepito come Concilio pastorale, che voleva spiegare al mondo di oggi la dottrina e gli insegnamenti del Vangelo in un modo più attraente e istruttivo. In particolare non ha pronunciato alcuna censura dottrinale. […] Invece il timore di pronunciare sia censure dottrinali che definizioni dogmatiche ha fatto sì che alla fine emergessero pronunciamenti conciliari il cui grado di autenticità e dunque di obbligatorietà fu assolutamente vario. (…)
Ogni testo conciliare ha un differente grado di cogenza. Anche questo è un aspetto totalmente nuovo nella storia dei Concili” (Walter Brandmüller, Il Vaticano II nel contesto della storia conciliare, in Aa. Vv., Le “chiavi” di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II, Cantagalli, 2012, pp. 54-55). Gli studi di monsignor Brunero Gherardini (l’ultimo è Il Vaticano II. Alle radici di un equivoco, Lindau, 2012) restano il punto di riferimento fondamentale per una valutazione del grado di cogenza di questi insegnamenti per lo più pastorali. Caratteristica sorprendente quella della pastoralità perché in tutti i venti Concili universali precedenti, la forma è sempre dogmatica e normativa. Quella definitoria, come osserva Enrico Maria Radaelli, in un suo acuto studio sul linguaggio del Vaticano II, è “la forma naturale del linguaggio della chiesa” (Il domani – terribile o radioso – del dogma, edizione pro manuscripto, 2012).
La pastoralità non fu solo un “fatto”, ovvero la naturale esplicazione del contenuto dogmatico del Concilio nei modi adatti ai tempi, come era sempre stato. Né il Concilio Vaticano I, né quello di Trento erano infatti privi di dimensione pastorale. La “pastoralità” fu invece elevata a principio alternativo alla “dogmaticità”, sottintendendo una priorità della prima sulla seconda. La dimensione pastorale, per sé accidentale e secondaria rispetto a quella dottrinale, divenne nei fatti prioritaria, operando una rivoluzione nel linguaggio e nella mentalità. Un autore non appartenente alla scuola di Bologna, il padre John O’Malley della Georgetown University, ha definito il Vaticano II come “un evento linguistico”, spiegando come alle professioni di fede e dei canoni si sostituì un “genere letterario” che egli chiama “epidittico”, ovvero discorsivo (Che cosa è successo nel Vaticano II, tr. it. Vita e Pensiero, 2010, pp. 45-54).
La chiesa si spogliò della sua veste dogmatica per indossare un nuovo abito pastorale ed esortativo, non più obbligatorio e definitivo. Ma esprimersi in termini diversi dal passato, significa compiere una trasformazione culturale più profonda di quanto possa sembrare. Lo stile del discorso e il modo con cui ci si presenta rivelano infatti un modo di essere e di pensare: lo stile, ricorda O’Malley, è l’espressione ultima del significato. Si può aggiungere che la rivoluzione nel linguaggio non consiste solo nel cambiare il significato delle parole, ma anche nell’omettere alcuni termini e concetti. Si potrebbero fare molti esempi: affermare che l’inferno è vuoto, cosa che il Concilio non fece, è certamente una proposizione temeraria, se non eretica.
Omettere, o limitare al massimo, ogni riferimento all’inferno come il Concilio fece, non formula nessuna proposizione erronea, ma costituisce un’omissione che prepara la strada a un errore ancora più grave dell’inferno vuoto: l’idea che l’inferno non esiste, perché non se ne parla, e ciò che è ignorato è come se non esistesse. Questo linguaggio però non si è rivelato adeguato a esprimere efficacemente il messaggio religioso e morale del Vangelo. Rinunciando a esprimere il suo insegnamento in maniera autoritativa e veritativa, la chiesa ha anche rinunziato a scegliere tra il sì e il no, tra il bianco e il nero, aprendo ampie zone di equivocità.
La principale caratteristica dei testi conciliari è non a caso l’ambiguità. Romano Amerio fu il primo a mettere in evidenza “il carattere anfibologico dei testi conciliari” (Iota Unum, Lindau, 2010), ovvero la loro equivocità di fondo, che permette di leggerli in continuità o in discontinuità con la Tradizione precedente. Un documento ambiguo può essere esplicitato nel senso della continuità, come si sforza di fare Benedetto XVI, o in quello della discontinuità, come fa la teologia progressista, ma non ha mai la limpidezza e il nitore che hanno i grandi testi conciliari da Nicea al Vaticano I ai quali non si sbaglia mai nel richiamarsi.
Secondo la scuola di Bologna la dimensione pastorale va considerata come una novità dottrinale implicita nel discorso di apertura di Giovanni XXIII che presentava il Concilio come un “balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale e formazione delle coscienze”; si trattava, afferma Ruggieri, di “un nuovo orientamento dottrinale, consistente soprattutto nella reinterpretazione della sostanza viva del Vangelo nel linguaggio che la storia attuale degli uomini e delle donne esige…”. La rottura apparentemente solo linguistica fu, secondo i bolognesi, in realtà dottrinale e questo perché, per essi, il modo in cui si parla e agisce è dottrina che si fa prassi. Come non
vedere in questa convinzione, che fu allora di Dossetti, ed è oggi dei suoi eredi, attraverso
Alberigo, la trascrizione all’interno della chiesa della categoria gramsciana di prassi in voga negli anni Sessanta?
La prassi era il modo di rapportarsi della chiesa con il mondo, che in quegli anni effettivamente mutò, abbandonando, ad esempio, come ben sottolineano Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, la lingua latina, la predicazione apologetica per il popolo e lo stile definitorio e giuridico (La Bella Addormentata. Perché dopo il Vaticano II la Chiesa è entrata in crisi. Perché si risveglierà, Vallecchi Editore, 2011). Il Vaticano II non ne deliberò in modo esplicito e solenne la rimozione e tuttavia il vento del Concilio spazzò via questi tre pilastri della comunicazione cattolica, sostituendoli con un nuovo modo di esprimersi e di parlare ai fedeli. Una volta accettato il primato della prassi si arrivò all’assunzione di criteri massmediatici, come vere e proprie categorie ecclesiali.
La assunzione del linguaggio mediatico, proprio del mondo, costrinse a sottomettersi alle sue regole. Ciò spiega il ruolo di quel “paraconcilio” a cui si sono volute attribuire responsabilità che però scaturivano dallo stesso evento conciliare (don Enrico Finotti, Vaticano II 50 anni dopo, Fede & Cultura, 2012, pp. 81-104). L’errore della scuola di Bologna non è quello di mettere in luce la portata della rivoluzione pastorale, che i teologi e gli storici “continuisti” pretendono minimizzare, ma di presentarla come una “nuova Pentecoste” per la chiesa, tacendone le catastrofiche conseguenze. Il loro errore non sta nella ricostruzione storica, generalmente corretta, pur nelle forzature, ma nella pretesa, tipica dell’immanentismo modernista, di fare della storia un locus teologico.
L’“ascolto della Parola di Dio” diviene per essi l’ascolto del Verbo che si autorivela nel divenire storico. Per Ruggieri, l’espressione più vera di questa ermeneutica storica sarebbe la costituzione Dei Verbum, laddove soprattutto nel proemio e al n. 2, “essa non separa la rivelazione dall’evento del suo ascolto e introduce così la storia stessa come elemento costitutivo dell’autocomunicazione”. Anche se l’espressione più diretta di questa ermeneutica storica è certamente Gaudium et spes, perché nella redazione della costituzione l’orientamento fondamentale fu quello di uno sguardo recettivo nei confronti della storia, come luogo nel quale avviene l’interpellazione attuale di Dio, con il riconoscimento esplicito che “la chiesa non ignora quanto essa abbia ricevuto dalla storia e dallo sviluppo del genere umano” (GS, 44)”.
La strada da seguire non è segnata dall’orientamento che propone Giuseppe Ruggieri né da quello che indica monsignor Marchetto, ma dal ritorno alla grande tradizione storiografica della chiesa. L’ermeneutica biblica contemporanea postula l’uso di una strumentazione storicocritica per analizzare la dimensione umana della Sacra Scrittura, e portarne alla luce la verità oltre le ingenuità apologetiche. Ma se, come affermano gli esegeti à la page, la via maestra per avvicinarsi alle Sacre Scritture è il metodo storico-critico, non si comprende perché lo stesso tipo di indagine non possa essere applicato a un evento storico quale fu il Concilio Vaticano II. Sembra curioso, il tentativo di demitizzare la Scrittura, arrivando a negare dogmi centrali della Fede cattolica, e di divinizzare invece il Vaticano II, facendone un “superdogma”, che non ammette critiche o revisioni di alcun genere.
Il cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze storiche, ha promosso nel 2012 alcuni seminari di studio sul Vaticano II, tra studiosi di differenti tendenze. Questi colloqui, sono stati un’utile occasione per togliere al Vaticano II quel velo di “intoccabilità” che impedisce ogni serio approfondimento e farlo oggetto di una pacata analisi tesa a collocarlo, all’interno della storia della chiesa, come non il primo né l’ultimo, ma il ventunesimo Concilio ecumenico della chiesa. C’è da augurarsi che l’Anno della Fede inaugurato da Benedetto XVI contribuisca a questa opera di rivisitazione storica, così importante per comprendere le cause della crisi religiosa e morale contemporanea.
Roberto de Mattei



 [1] Roberto de Mattei: https://plus.google.com/104289627121235509825

martedì 23 ottobre 2012

florete flores: il nuovo Seminario della Fraternità San Pio X in Virginia

ecco notizie sul nuovo Seminario della fraternità San Pio X in Virginia di cui avevamo partato qui: http://unafides33.blogspot.it/2011/11/segni-dei-tempi.html

IL NUOVO SEMINARIO DELLA FSSPX IN VIRGINIA

di Francesco Colafemmina
In questa splendida prateria sorgerà il nuovo seminario della FSSPX "San Tommaso d'Aquino"

Si discute di terze vie e di decadenza dell'architettura sacra. Intanto c'è chi offre una risposta concreta e per farlo ricorre al romanico, un romanico francese slanciato e nobile, semplice e solenne al tempo stesso. E' il progetto del nuovo seminario statunitense della FSSPX, in Virginia.
Non una cattedrale nel deserto o un blocco di cemento armato nella campagna, bensì un armonico complesso pienamente integrato nel suo rigoglioso environment. Due notazioni: da un lato il richiamo allo stile monastico cluniacense quale sinonimo di officina di fede e dottrina.

Chiesa di San Nectario a Saint-Nectaire, Francia XII sec.
Dall'altro la struttura aperta e al contempo chiusa. Aperta dinanzi alla chiesa che tanto ricorda la chiesa di San Nectario nell'omonimo borgo francese con le sue cappelle radiali.
 
 
Ma allo stesso tempo chiusa nel chiostro del seminario, con quei leggeri contrafforti esterni che lo fanno assomigliare ad un fortilizio, sede di un cattolicesimo militante pronto ad evangelizzare il mondo.
 
Dal 20 ottobre è attivo anche il sito del nuovo seminario dal quale è possibile inviare contributi per la realizzazione dell'opera. Ormai il vecchio seminario di Winona, in Minnesota, non è più in grado di accogliere i tanti nuovi seminaristi che si affacciano alla Fraternità, è perciò davvero sorprendente questo progetto perché unisce la bellezza alla gioiosa consapevolezza che da qualche parte nel mondo le vocazioni non sono in calo e nei seminari tradizionali si preparano nuove generazioni di sacerdoti retti nella disciplina e formati nella sana dottrina.
 

martedì 16 ottobre 2012

"Negare la gravissima crisi in cui si trova la Chiesa significa negare l'evidenza" (D. Alberto Secci)

Resoconto della III Giornata della Tradizione a Verbania svoltasi domenica 14 ottobre u.s.

"Negare la gravissima crisi in cui si trova la Chiesa significa negare l'evidenza..., di conseguenza, chi dice le cose come stanno realmente, viene considerato un nemico della Chiesa".
 Con queste addolorate parole don Alberto Secci ha aperto la III Giornata della Tradizione che si è svolta, come da programma, all'hotel "Il Chiostro" di Verbania. La sala delle conferenze era gremita di pubblico e così anche la Cappella dove, alle 17,30, è stata celebrata, dal medesimo don Alberto, la S. Messa.
"Pur di negare l'evidenza" - proseguiva il coraggioso sacerdote ossolano - "si giunge spesso ad arrampicarsi sui vetri in modo incredibile. Venendo a Verbania ascoltavo, ad esempio,  un'intervista radiofonica ad un presule romano. Egli si è spinto a dichiarare che... questa crisi ha permesso alla Chiesa di fornire, come sempre, la medicina giusta. Questa medicina si chiama Concilio Vaticano II. ... Come si fa ad arrivare a tal punto?!"
Poco dopo è stato presentato quindi l'oratore ufficiale della manifestazione. A sorpresa è salito al tavolo don Pierpaolo Petrucci, superiore del Distretto Italiano della FSSPX:
"Abbiamo invitato la Fraternità San Pio X" - ha detto ancora don Alberto - "perchè nessuno più di loro, in oltre quarant'anni di studio e sacrifici, hanno saputo maggiormente approfondire i motivi ed il significato di questa crisi spaventosa. Le medesime Autorità Romane, accettando di discutere ufficialmente con la FSSPX, hanno implicitamente ammesso che le loro posizioni sono importanti e degne della massima attenzione".
 
Don Pierpaolo Petrucci ha quindi riassunto, nel suo limpido intervento, le ragioni storiche che hanno portato alla situazione attuale: "La causa prima di tutti i turbamenti della Chiesa, in tutta la sua storia, è ovviamente Satana. Egli, per agire, ha bisogno però di collaboratori umani e sempre purtroppo ne ha trovati nel corso dei secoli".

Egli ha quindi riassunto la storia delle eresie e, specialmente, quelle che hanno infestato la Cristianità dall'umanesimo in avanti.

"Lutero, in pratica, ha detto: Cristo sì, Chiesa no. Poi è arrivata la Rivoluzione Francese e il liberalismo che hanno fatto un passo ulteriore: Dio sì,  Cristo no. Infine il marxismo ateo: Dio è morto".
Fino alla metà del XIX secolo tutte queste eresie imperversavano nel mondo ma la Chiesa le avversava con vigore. Poi è iniziata una lenta penetrazione, subdola e strisciante, all'interno della Sposa di Cristo. San Pio X riuscì a sgominare il modernismo, sintesi di tutte le eresie, ma, morto lui, il processo continuò piano piano, fino ad esplodere durante e dopo il Concilio Vaticano II.
"Mons. Lefebvre" - ha ricordato don Pierpaolo - "ci diceva, come del resto affermò anche, in prospettiva opposta il card. Suenens, che il Concilio era stato il 1789 della Chiesa. In esso si imposero i tre motti rivoluzionari: Libertè (libertà religiosa), Fraternità, con l'ecumenismo, Egalitè con il principio della Collegialità".  
Al termine del suo intervento il Superiore Italiano della FSSPX ha risposto a molte domande presentate dal numerosissimo e attento pubblico.
Infine don Alberto Secci ha concluso i lavori invitando tutti a "pregare e reagire".
"Dobbiamo ovviamente pregare perchè ogni Grazia ci viene dal Cielo, ma dobbiamo anche reagire con chiarezza: parecchi sacerdoti, generalmente in privato, ammettono molte delle considerazioni che oggi abbiamo fatto ma poi, magari per comprensibili motivi di rispetto verso le Autorità, non hanno poi il coraggio di esporsi in prima persona. Noi invece dobbiamo pregare e reagire, con i dovuti modi ma reagire!"

 
Marco Bongi



lunedì 15 ottobre 2012

"Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana" (A. Fortescue)

● «Le preghiere del nostro Canone si trovano nel trattato De Sacramentis (fine del IV-V secolo) [...]. La nostra Messa risale, senza mutamento essenziale, all'epoca in cui si sviluppava per la prima volta dalla più antica liturgia comune [circa trecento anni dopo Cristo]. Essa serba ancora il profumo di quella liturgia primitiva, nei giorni in cui Cesare governava il mondo e sperava di poter spegnere la Fede cristiana; i giorni in cui i nostri padri si riunivano avanti l'aurora per cantare un inno a Cristo come a loro Dio [cfr. Plinio junior, Ep. 96]. Non vi è, in tutta la cristianità, rito altrettanto venerabile quanto la Messa romana» (A. Fortescue, La Messe, Parigi, Lethielleux, 1921).
● «Il Canone romano risale, tale e quale è oggi, a San Gregorio Magno. Non vi è, in Oriente come in Occidente, nessuna preghiera eucaristica che, rimasta in uso fino ai nostri giorni, possa vantare una tale antichità! Agli occhi non solo degli “ortodossi”, ma degli anglicani e persino dei protestanti che hanno ancora in qualche misura il senso della Tradizione, gettarlo a mare equivarrebbe, da parte della Chiesa Romana, a rinnegare ogni pretesa di rappresentare mai più la vera Chiesa Cattolica» (P. Louis Bouyer, Mensch und Ritus, 1964).
● «La Liturgia Romana è rimasta pressoché immutata attraverso i secoli nella sua sobria e piuttosto austera forma risalente ai primi cristiani. Essa s’identifica con il Rito più antico. Nel corso dei secoli, molti Papi hanno contribuito alla sua configurazione: San Damaso papa (+384), per esempio, e successivamente soprattutto San Gregorio Magno (+604) […]. La Liturgia damasiano-gregoriana è quella che è stata celebrata nella Chiesa latina sino alla riforma liturgica dei nostri giorni. Non è quindi esatto parlare di abolizione del Messale di “San Pio V”. A differenza di quanto è avvenuto oggi in maniera spaventosa, i cambiamenti apportati al Missale Romanum nel corso di quasi 1400 anni non hanno toccato il Rito della Messa: si è bensì trattato solo di arricchimenti, per l’aggiunta di feste, di Propri di Messe e di singole preghiere […]. Non esiste in senso stretto una “Messa Tridentina” o “di San Pio V”, per il fatto che non è mai stato promulgato un nuovo Ordo Missae, in seguito al Concilio di Trento, da San Pio V. Il Messale che San Pio V fece approntare fu il Messale della Curia Romana, in uso a Roma da molti secoli e che i Francescani avevano già introdotto in gran parte dell’ Occidente; un Messale, tuttavia, che non era mai stato imposto universalmente, in modo unilaterale dal Papa. […]. Sino a Paolo VI, i Papi non hanno mai apportato alcun cambiamento all’Ordo Missae, ma solo ai Propri delle Messe per le singole festività. […]. Noi parliamo piuttosto di Ritus Romanus e lo contrapponiamo al Ritus Modernus. […]. L’unico punto su cui tutti i Papi, dal secolo V in poi, hanno insistito è stata l’ estensione di questo Canone Romano alla Chiesa universale, sempre ribadendo che esso risale all’Apostolo Pietro. […]. Il rito Romano si può definire come l’insieme delle forme obbligatorie del Culto che, risalenti in ultima analisi a N. S. Gesù Cristo, si sono sviluppate nei dettagli a partire da una Tradizione apostolica comune, e sono state più tardi sancite dall’Autorità ecclesiastica. […]. Un Rito che nasce da una Tradizione apostolica comune […] non può essere rifatto ‘ex novo’ nella sua globalità. […]. Ha il Papa il diritto di mutare un Rito che risale alla Tradizione apostolica e che si è formato nel corso dei secoli? […]. Con l’Ordo Missae del 1969 è stato creato un nuovo Rito. L’Ordo tradizionale è stato totalmente trasformato e addirittura, alcuni anni dopo, proscritto. Ci si domanda: un così radicale rifacimento è ancora nel quadro della Tradizione della Chiesa? No. […]. Nessun documento della Chiesa, neppure il Codice di Diritto Canonico, dice espressamente che il Papa, in quanto Supremo Pastore della Chiesa, ha il diritto di abolire il Rito tradizionale. Alla ‘plena et suprema potestas’ del Papa sono chiaramente posti dei limiti […]. Più di un autore (Gaetano, Suarez) esprime l’ opinione che non rientra nei poteri del Papa l’abolizione del Rito tradizionale. […]. Di certo non è compito della Sede Apostolica distruggere un Rito di Tradizione apostolica, ma suo dovere è quello di mantenerlo e tramandarlo. […]. Nella Chiesa orientale e occidentale non si è mai celebrato versus populum, ma ci si è volti ad Orientem […]. Che il celebrante debba rivolgere il viso al popolo fu sostenuto per la prima volta da Martin Lutero. […]» (Klaus Gamber, La riforma della Liturgia Romana. Cenni Storici – Problematica, 1979, tr. it., Roma, Una Voce, giugno/ dicembre 1980).
 

venerdì 12 ottobre 2012

contro semplicismi e tatticismi vari: "Magistero contro Tradizione?" di Don Pierpaolo Petrucci

Una spiegazione chiara ed intelliggibile dello staus queastionis
 

Magistero contro Tradizione?

Il motivo di contrasto fra la Fraternità San Pio X e le autorità romane è il suo opporsi all’insegnamento attuale della Chiesa, che fonda le sue radici nell’ultimo concilio. Tale opposizione è da noi motivata dal fatto che si insegnano ora nuove dottrine in contrasto con l’insegnamento passato. Il Vaticano ci accusa per questo di avere una concezione erronea della Tradizione e del magistero della Chiesa.
Secondo Giovanni Paolo II la posizione della Fraternità San Pio X ha come origine il fatto che non si consideri la Tradizione come qualcosa di vivente, rimanendo fissati sul passato. Così si esprimeva nel 1988, all’occasione della consacrazione dei nostri quattro vescovi: «La radice di questo atto scismatico è individuabile in una incompleta e contraddittoria nozione di Tradizione. Incompleta, perché non tiene sufficientemente conto del carattere vivo della Tradizione».[1]
A sua volta Benedetto XVI accusa la Fraternità San Pio X di essersi fissata al magistero pre-conciliare e di non riconoscere appunto il magistero del Concilio e del post-concilio: «Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità».[2]
La Tradizione deve essere vivente, cioè interpretata dal magistero attuale che ci dice oggi ciò che è conforme o meno alla fede. Chi vuole opporre la Tradizione di ieri al magistero di oggi si erge a giudice della Chiesa e del suo insegnamento, rimpiazzandolo appunto con il suo personale giudizio.
Per sviscerare il problema, rispondere a questa obiezione e comprendere in cosa consista questa opposizione che sembra sia fondamentale risolvere, prima di poter giungere ad una soluzione giuridica fra la Fraternità San Pio X e Roma, è necessario definire e chiarire i concetti di Tradizione e magistero.
La Rivelazione
Poiché la Tradizione è la trasmissione della Rivelazione divina tramite il magistero, cominciamo con il definire tale nozione. La Rivelazione è l’atto con cui Dio si manifesta all’uomo. Egli si fa conoscere prima di tutto tramite la creazione dell’universo, che riflette gli attributi divini per sé invisibili, ed è questa la Rivelazione naturale.
In modo particolare Dio si è manifestato per mezzo dei profeti e di Gesù Cristo, facendoci conoscere direttamente verità di per sé naturali, come l’immortalità dell’anima, ma anche verità che superano la ragione dell’uomo come tutti i misteri soprannaturali, per esempio la Santissima Trinità e l’Incarnazione.
La Rivelazione soprannaturale si definisce quindi come un insegnamento fatto da Dio agli uomini in ordine alla loro santificazione e alla vita eterna.[3] Essa si è chiusa con la morte dell’ultimo apostolo[4] e la Chiesa ricevette da Gesù Cristo il mandato di annunciarla a tutte le genti perché, tramite la fede nelle verità rivelate, gli uomini potessero giungere alla salvezza.
Compito della Chiesa è quindi trasmettere la Rivelazione intatta e approfondirla, attingendo dalle sue fonti che sono la Sacra Scrittura e la Tradizione, senza alterarla.[5]

La Tradizione
Il termine “tradizione” è di origine greca e significa trasmissione, dottrina orale. Nel senso teologico si può definire come la parola di Dio, concernente la fede e la morale, non scritta ma trasmessa a viva voce da Gesù, dagli apostoli e da questi ai loro successori fino a noi. Parola “non scritta” non nel senso che non possa essere contenuta in alcuno scritto, ma per differenziarla dalla Sacra Scrittura, altra fonte della Rivelazione divina, che appunto è stata scritta sotto l’ispirazione divina.
La Tradizione si dice divina quando l’insegnamento venne direttamente da Gesù Cristo; divino-apostolica quando esso fu dato agli apostoli per ispirazione dello Spirito Santo secondo la promessa di Gesù: «Il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto».[6]
Contro l’eresia protestante che nega la Tradizione come fonte della Rivelazione, il Concilio di Trento ha definito che la dottrina riguardante la fede e la morale «si contiene tanto nei libri scritti (Sacra Scrittura) quanto nelle tradizioni non scritte» e quindi bisogna ricevere con «uguale pietà e amore e riverenza» sia l’una che l’altra fonte della Rivelazione.[7]
Gesù, dopo aver predicato (e non scritto) la sua dottrina, affidò agli apostoli la missione non di scrivere ma di propagare oralmente quanto avevano udito dalle sue labbra o avrebbero imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo. «Andate dunque ad insegnare a tutte le genti» (Mt 28,18). «Andate per tutto il mondo e predicate l'evangelo a ogni creatura» (Mc 16,15).
I principali strumenti attraverso i quali si è conservata la Tradizione divina sono le professioni di fede, la sacra liturgia, gli scritti dei Padri, gli atti dei martiri, la prassi della Chiesa, i monumenti archeologici. La Rivelazione divina quindi ci proviene da due fonti: la Tradizione e la Sacra Scrittura. L’organo che ce la trasmette intatta è il magistero infallibile della Chiesa.[8]
Il magistero
Nel senso etimologico il magistero è una funzione che ha per scopo di istruire. Poiché l’oggetto del magistero ecclesiastico sono le verità di fede rivelate, questa istruzione si farà essenzialmente per testimonianza: trasmissione delle verità di fede ricevute da Dio per permettere agli uomini di giungere al fine per cui sono stati creati: la salvezza eterna.
Il magistero si può definire come il potere conferito da Gesù Cristo alla sua Chiesa in virtù del quale essa è costituita unica depositaria e autentica interprete della Rivelazione divina da proporre agli uomini come oggetto di fede per la loro salvezza eterna, in maniera infallibile in quanto assistita divinamente da Gesù Cristo.[9] Quando si parla di magistero è opportuno distinguerne il soggetto (il Papa ed i vescovi) dal contenuto (trasmissione e approfondimento del deposito rivelato) e infine dal suo modo di esercizio (infallibile o semplicemente autentico).
Chi insegna?
Il soggetto di tale potere è il Papa cui il Signore ha affidato il compito di pascere le sue pecorelle, aiutato dai vescovi. È questa la Chiesa insegnante. Si tratta di un soggetto umano e quindi volontario, assistito da Dio, nella missione che gli è stata affidata, nella misura in cui vorrà sottomettersi a questa assistenza divina ed esercitare il potere di insegnare.
L’oggetto del magistero
L’oggetto del magistero sono le verità rivelate da trasmettere, approfondire e difendere, senza alcuna variazione né cambiamento. Il magistero della Chiesa, in quanto contenuto, è essenzialmente tradizionale e costante.
Fra l’insegnamento degli apostoli e quello dei loro successori vi è una differenza importante che il card. Franzelin sintetizza con questo parole: «L’apostolato fu istituito per fondare la Chiesa predicando tutta la verità rivelata. Per questo i successori degli apostoli non possono aver per funzione di rivelare ancora un’altra verità; devono al contrario conservare e predicare nella sua integrità e nel suo significato autentico tutta la verità che gli apostoli hanno ricevuto». In altre parole il magistero degli apostoli è stato l’organo della Rivelazione mentre il magistero della Chiesa è quello della Tradizione nel suo senso più etimologico, cioè quello della trasmissione del deposito ricevuto. Per questo una tale trasmissione dipende della Rivelazione che è la sua regola ed il suo principio fondamentale. «I successori degli apostoli – continua il nostro autore – appaiono sempre come i testimoni ed i dottori incaricati di proporre unicamente ciò che hanno ricevuto dagli apostoli. Il loro incarico apostolico ed il loro compito infatti ha per oggetto il rimanere fedeli all’insegnamento che hanno ricevuto e alle verità che sono state loro affidate dagli apostoli».[10]

L’approfondimento del deposito rivelato
Il compito del magistero non consiste unicamente nel trasmettere le verità di fede ma anche nell’approfondirle, cioè darne ai fedeli una comprensione più grande. Ciò deve farsi non nel senso di una evoluzione eterogenea del dogma, ma soltanto tramite una comprensione più grande di ciò che è già stato rivelato. Il magistero contribuisce al passaggio da una conoscenza implicita ad una conoscenza più esplicita della fede. Così si esprime padre Marin Zola nel suo studio magistrale su dogma cattolico: «Gli apostoli non hanno comunicato alla Chiesa una spiegazione perfetta di tutto il senso implicito (della Rivelazione) che conoscevano esplicitamente. Però hanno lasciato il magistero dogmatico permanente, prolungamento perpetuo del loro magistero divino, per spiegare o manifestare sempre più “l’implicito” del deposito rivelato, a seconda che lo avrebbero richiesto le eresie, le controversie o le necessità di ogni epoca».[11]
Un tale approfondimento, come dichiara il Concilio Vaticano I, deve prodursi «nella stessa credenza, nello stesso senso, nello stesso pensiero». Non è mai possibile allontanarsi dal senso delle verità di fede definite «sotto il pretesto o in nome di una comprensione più approfondita».[12]
Il modo dell’insegnamento
Questa assistenza divina alla Chiesa è differente a secondo di come essa esercita il suo potere magisteriale poiché esso dipende dalla volontà del soggetto. Il Papa può insegnare in maniera infallibile, in modo semplicemente autentico, si può accontentare di riferire opinioni personali, oppure, e questo sembra essere il nocciolo del problema del concilio Vaticano II, limitarsi a dare consigli pastorali.

Il magistero infallibile
Magistero infallibile è quello in cui il Papa è assistito divinamente perché possa insegnare senza errore la verità rivelata. Egli gioisce del carisma dell’infallibilità nel suo atto solenne quando, da solo ex cathedra oppure quando si trova alla testa di tutto il corpo dei vescovi riuniti in concilio ecumenico, definisce una dottrina sulla fede o la morale in quanto pastore supremo, da tenersi da tutta la Chiesa.[13]
Nel concilio il soggetto dell’infallibilità è sempre il Papa, capo di quella persona morale che è il concilio, anche se il modo di insegnamento è diverso (non da solo ma appunto in unione con tutti i vescovi riuniti). Non vi sono due soggetti distinti del carisma dell’infallibilità ma uno solo, il Papa, che può insegnare in modi diversi. Il concilio è quindi formalmente soggetto del primato in ragione del Papa poiché, secondo il Concilio Vaticano I[14], il soggetto del primato è unico ed è il Papa.[15]
Il concilio ecumenico è quindi infallibile quando intende definire una verità di fede perché partecipa dell’infallibilità del Papa. Tale volontà di definire si può constatare nei suoi decreti quando si afferma che una verità deve essere creduta fermamente dai fedeli o ancora quando la si deve ricevere come un dogma di fede; quando si condanna con l’anatema l’errore contrario, quando la proposizione contraddittoria alla verità di fede insegnata è qualificata come eretica.
Il Papa poi può anche definire infallibilmente delle dottrine e condannare errori senza affermare esplicitamente che sono da tenersi di fede. In questo caso chi le nega non può considerarsi formalmente eretico, ma pecca gravemente contro la fede.[16]

Il magistero ordinario e universale
Il magistero infallibile del Papa si esercita in maniera ordinaria, quando egli insegna alla testa ed in unione con il corpo episcopale disperso nel mondo. È questo il Magistero ordinario universale (MOU).
Lo si chiama ordinario perché è dato al di fuori delle circostanze eccezionali delle definizioni ex cathedra e del concilio ecumenico. Esso si esercita tutti i giorni tramite la predicazione abituale dei pastori. È universale perché, per gioire della nota di infallibilità, deve esercitarsi, dal Papa e dai vescovi a lui sottomessi e dispersi nel mondo, in maniera concorde ed unanime.
Questa unanimità non deve essere soltanto considerata nello spazio, cioè tutti i vescovi viventi uniti al Papa, ma anche nel tempo per ciò che riguardo la dottrina insegnata. Esso è per definizione tradizionale, nel senso che si fa eco oggi della dottrina insegnata nei secoli.
Non definisce, come lo fa il magistero solenne, ma propone semplicemente l’oggetto della fede e lo trasmette. Un elemento che secondo Pio IX (Tua libenter) permette di riconoscere le verità che sono proposte come dogmi dal magistero ordinario della Chiesa dispersa è l’accordo unanime e costante dei teologi: «Infatti anche se si tratta di quella sottomissione che si deve prestare con un atto di fede divina, tuttavia questa non deve essere limitata a quelle cose che sono state definite con espliciti decreti dei concili o dei pontefici romani e di questa sede apostolica, ma deve essere estesa anche a quelle cose che, per mezzo del magistero ordinario di tutta la chiesa diffusa su tutta la terra, sono trasmesse come divinamente rivelate e quindi, per l’universale e costante consenso, dai teologi cattolici sono considerate come appartenenti alla fede» (Dz 2879).
La definizione dogmatica suppone l’insegnamento del magistero universale; essa precisa che tale verità, già insegnata dalla Chiesa, deve essere creduta come definita di fede divina e cattolica.

Regola prossima della fede
La Sacra Scrittura e la Tradizione sono quindi la fonte e la regola remota della fede, mentre la regola prossima è il magistero della Chiesa. Si tratta del magistero infallibile e definitivo che nel corso dei secoli ci ha trasmesso intatto ed in maniera sempre più intelligibile il deposito rivelato, senza mai alterarlo, e che deve continuare nella sua opera fino alla fine del mondo.
Sant’Agostino, facendosi eco di tutto l’insegnamento della Tradizione, affermava che egli non crederebbe neppure al Vangelo se il Magistero della Chiesa non glielo proponesse a credere.[17] Lutero ha osato impugnare questa verità vissuta già da 15 secoli di cristianesimo e, rinnegando il magistero della Chiesa, ha proclamato come unica regola di fede la Sacra Scrittura affidata all'interpretazione individuale dei fedeli. Le innumerevoli sette protestanti, con lo smarrimento e la degenerazione dottrinale che le caratterizza, sono una prova evidente del fallimento di quel falso principio.[18]

Il magistero semplicemente autentico
Il magistero semplicemente autentico è quello che si esercita senza impegnare l'infallibilità. La stessa definizione dell’infallibilità pontificia data dal Concilio Vaticano I, stabilendo le condizioni nelle quali il Papa è infallibile, lascia aperta la possibilità che, al di fuori di esse, non vi sia questa assistenza. Questo può verificarsi quando non vi è giudizio positivo sulla dottrina rivelata, ma il Papa vuol semplicemente dirimere una controversia; oppure vi è un giudizio positivo ma unicamente prudenziale e non definitivo.[19]
Gli atti di un insegnamento non infallibile reclamano comunque un assenso religioso interno, cioè dell’intelletto sotto la mozione della volontà. Questo assenso può essere sospeso solo nel caso in cui appare affermata una dottrina chiaramente in contrasto con il magistero infallibile.
Quando si constatasse «un’opposizione precisa tra un testo di enciclica e le altre testimonianze della Tradizione apostolica» allora, per il cattolico che abbia approfondito la questione, è possibile sospendere o negare il suo assenso al documento papale.[20]

Magistero vivente e perennità della fede
Poste queste premesse cerchiamo ora di rispondere alle accuse mosse alla Fraternità San Pio X di «non tener conto del carattere vivo della Tradizione» e di «voler congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962».[21]
Quando si parla di “carattere vivo della Tradizione”, se si intende la capacità che ha l’insegnamento di Gesù e degli apostoli, trasmessoci dalla Chiesa fino ad oggi tramite il suo magistero infallibile e quindi immutabile, di dare la vita spirituale alle anime e di vivificare la società contemporanea, siamo i primi ad aderire a questa verità incontestabile.
Se si intende invece il concetto di “tradizione vivente” come una caratteristica del deposito rivelato trasmesso dalla Chiesa di trasformarsi ed adattarsi ai tempi e alle circostanze fino al punto di essere in contraddizione con l’insegnamento infallibile del passato, allora siamo di fronte alla teoria modernista dell’evoluzione dei dogmi.
Se per “voler congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962” si vuol affermare che la Chiesa non ha più potere di insegnare a partire da quell’anno, chiaramente rigettiamo quest’errore e riconosciamo che la Chiesa anche oggi ha il potere di insegnare, di trasmettere e approfondire con il suo magistero infallibile la verità, e questo fino alla fine del mondo.
Ma se si intende con questa affermazione che l’autorità della Chiesa di oggi avrebbe il potere di insegnare ed obbligare a credere qualche cosa di diverso da quello che il magistero ha già definito infallibilmente, chiaramente ci troviamo di fronte ad una concezione erronea del magistero, slegata dal motivo formale per cui fu istituito da Nostro Signore, cioè la trasmissione di ciò che già è stato rivelato, approfondendolo «nello stesso senso e nello stesso pensiero».
L’attributo “vivente” può concernere il soggetto dell’atto del magistero, cioè il Papa ed i vescovi, oppure riguardare il contenuto del loro insegnamento. Per quel che è del soggetto, “vivente” si oppone a “postumo”. Il magistero postumo è quello esercitato con autorità da tutti i Papi e vescovi del passato, che continua comunque ad esercitarsi tramite i loro scritti che, in quanto infallibili, sono di loro natura immutabili. Il magistero vivente invece è l’insegnamento attuale dei pastori della Chiesa che si esercita principalmente tramite la predicazione orale fatta dai ministri legittimi, e per i loro scritti.
Ma quanto al contenuto dell’insegnamento, le professioni di fede, i dogmi, tutte le verità definite ed insegnate infallibilmente nel passato, continuano, tramite lo scritto, a far parte del magistero vivente della Chiesa e nessuna autorità ecclesiastica potrà mai legittimamente contraddirle o insegnare l’opposto.
Il magistero vivente può, come abbiamo visto, approfondire sempre di più le verità di fede già rivelate, darne una comprensione sempre più profonda, ma sempre nello stesso senso e nella stessa linea di ciò che è già stato insegnato in maniera definitiva.
In questo senso l’attributo “vivente” è una caratteristica essenziale del magistero della Chiesa. I pastori di oggi si fanno eco di quelli di ieri e quelli di domani continueranno ad annunciare il messaggio ascoltato da Gesù e dagli apostoli fino alla fine del mondo, difendendolo dagli errori e dalle eresie, per generare la fede negli uomini e dare così loro la possibilità di raggiungere la salvezza eterna.
Libero esame o difesa della fede?
“Come i protestanti anche voi giudicate il magistero della Chiesa, ma al posto della Sola Scriptura utilizzate il criterio Sola Traditione, come se non fosse la Chiesa ad insegnarci ciò che è contenuto nella Tradizione. Sostituite così il vostro giudizio a quello della Chiesa e cadete nell’errore del libero esame”. Questa l’accusa ricorrente da parte di alcuni dei nostri oppositori.
Si risponde facilmente a una tale obiezione che il criterio di giudizio non è soggettivo. Non è l’individuo che può ergersi a giudicare il magistero attuale, secondo le sue idee personali.
Il criterio di giudizio, poi, non si può neppure assumere unicamente da una sorgente del deposito rivelato, come fanno i protestanti con la Sacra Scrittura. Tale criterio può essere soltanto tutto il deposito rivelato cioè Sacra Scrittura e Tradizione come ci è stata trasmessa infallibilmente appunto dal magistero Chiesa.
Quando una contraddizione appare in maniera manifesta alla ragione fra una dottrina proposta con ciò che sono obbligato a credere, devo far riferimento a ciò che la Chiesa, guidata dal magistero, ha sempre creduto.[22] La ragione manifesta questa opposizione, ma chi permette di portare il giudizio sull’errore è il magistero definitivo della Chiesa, criterio assoluto e definitivo di verità.
Concretamente, se un giorno una qualunque autorità nella Chiesa, compreso il Papa, affermasse che nella Santissima Trinità ci sono quattro persone, non potrei essere tacciato di libero esame se affermassi che tale insegnamento è falso, perché il mistero della Santissima Trinità è già stato definito in maniera irrevocabile dalla Chiesa e quindi nel futuro essa potrà soltanto cercare di approfondire questo dogma, ma mai insegnare il contrario di ciò che ha già insegnato infallibilmente.
Ora vi è palese contraddizione fra l’insegnamento tradizionale della Chiesa e numerose nuove dottrine propagate dal Concilio Vaticano II e nel post-concilio come è stato dimostrato in numerose pubblicazioni e come teologi di rilevanza, anche nell’ambito della Chiesa ufficiale,[23] hanno anche recentemente messo in rilievo. In questa sede sarà sufficiente mostrare, con qualche citazione, come questo disaccordo è riconosciuto persino da personalità di spicco della Chiesa, che hanno partecipato attivamente all’ultimo concilio.
«Non si può negare che la Dichiarazione sulla libertà religiosa dica materialmente altra cosa che il Sillabo del 1864 e anche più o meno il contrario».[24]
«Se si cerca una diagnosi globale del testo (Gaudium et spes), si potrebbe dire che è (unitamente ai testi sulla libertà religiosa e sulle religioni del mondo) una revisione del Sillabo di Pio IX, una sorta di contro-sillabo».[25]
«Si potrebbe fare una lista impressionante delle tesi insegnate a Roma prima del Concilio come unicamente valide e che furono eliminate dai Padri del concilio».[26]

«È chiaro, sarebbe vano nasconderlo, il decreto conciliare Unitatis Redintegratio afferma su più punti altra cosa che “Fuori dalla Chiesa non vi è salvezza”, nel senso in cui si è inteso questo assioma durante dei secoli. (…) Lumen Gentium ha abbandonato la tesi che la Chiesa Cattolica sarebbe Chiesa in maniera esclusiva».[27]
«In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. (…) Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità».[28]
Di fronte a questi cambiamenti che toccano la fede e sono alla radice della grave crisi che la Chiesa sta subendo, è doveroso manifestare pubblicamente la propria opposizione, alla luce del vero magistero vivo della Chiesa che è il suo insegnamento costante, infallibile e definitivo, il solo capace di illuminare l’oscurità e l’incertezza dottrinale contemporanea.
da La Tradizione Cattolica anno XXIII n° 2

[1] Giovanni Paolo II, Motu proprio Ecclesia Dei afflicta del 2 luglio 1988
[2] Benedetto XVI, Lettera ai vescovi, 10 marzo 2009
[3] Pietro Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica, ed. Studium 1952 p. 293
[4] Il decreto Lamentabili di S. Pio X nella sua 21° proposizione condanna l’errore opposto.
[5] Concilio Vaticano I, Costituzione Dei Filius, c. 4; DS 3020
[6] Gv 14,26
[7] Sess. 4
[8] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 332 et ss.
[9] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 204
[10] Tesi 22
[11] Marin Sola, L’évolution homogène du dogme catholique n° 59
[12] Conc. Vat. I Dei Filius cap. 4; DS 3020
[13] Concilio Vaticano I, Pastor aeternus, c. 4
[14] Pastor aeternus cap 3 Dz 3059
[15] La nuova teoria proposta da Lumen gentium (cap. 3, 22) secondo cui il corpo dei vescovi unito al Papa sarebbe, oltre al Papa solo, un altro soggetto permanente ed ordinario del potere supremo, è totalmente contraria all’insegnamento tradizionale della Chiesa.
[16] Non è stata ancora definita l’infallibilità per ciò che non è presentato dal Papa come di fede divina. Marin Sola, L’Evolution homogène du dogme catholique, T. I n° 269 p. 472
[17] Contra ep. fundam. C. 5, PL, 42, 176
[18] Cfr. Parente, Dizionario di Teologia Dogmatica p. 204
[19] Billot, De Ecclesia Q 14 Tesi 31, 1 p. 640
[20] Arnaldo Xavier da Silveira, La nouvelle messe de Paul VI: qu’en penser? DPF 1974, p. 300 et ss.
[21] Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, vedi introduzione all’articolo.
[22] È il criterio che ci propone san Vincenzo di Lerino: «Quod semper quod ubique quod ab omnibus».
[23] Come per esempio mons. Brunero Gherardini e padre Serafino Lanzetta. Leggere in particolare Lo hanno detronizzato, mons. Marcel Lefebvre, ed. Amicizia Cristiana 2009.
[24] Y. Congar, La crise de l’Eglise et Mgr Lefebvre, le Cerf 1977, p. 54
[25] I principi della teologia cattolica, Card. Ratzinger 1982
[26] Card. Suenens, I.C.I del 15 maggio 1969
[27] Congar, Essais oecumeniques, le Centurion 1984 p. 216
[28] Benedetto XVI, Discorso alla Curia, 22-12-2005

martedì 9 ottobre 2012

de Mattei e l'omissione del Concilio

Ecco perché

il Vaticano II

non condannò

il comunismo

L’Unione Sovietica e i Paesi del blocco ricattarono i vertici ecclesiastici affinché il sinodo non approvasse petizioni contro gli orrori staliniani


 
Poiché in questi giorni se ne evocano soprattutto le luci, mi sia permesso ricordarne una vasta zona d'ombra: la mancata condanna del comunismo. Erano gli anni '60 e aleggiava un nuovo spirito di ottimismo incarnato da Giovanni XXIII, il «Papa buono», Nikita Kruscev, il comunista dal volto umano, e John Kennedy, l'eroe della «nuova frontiera» americana. Ma erano anche gli anni in cui veniva innalzato il muro di Berlino (1961) e i sovietici installavano i missili a Cuba (1962). L'imperialismo comunista costituiva una macroscopica realtà che il Concilio Vaticano II, il primo «concilio pastorale» della storia, apertosi a Roma l'11 ottobre 1962 e conclusosi l'8 dicembre 1965, non avrebbe potuto ignorare.
In Concilio vi fu uno scontro tra due minoranze: una chiedeva di rinnovare la condanna del comunismo, l'altra esigeva una linea «dialogica» e aperta alla modernità, di cui il comunismo pareva espressione. Una petizione di condanna del comunismo, presentata il 9 ottobre '65 da 454 Padri conciliari di 86 Paesi, non venne neppure trasmessa alle Commissioni che stavano lavorando sullo schema, provocando scandalo.
Oggi sappiamo che nell'agosto del '62, nella città francese di Metz, era stato stipulato un accordo segreto fra il cardinale Tisserant, rappresentante del Vaticano, e il nuovo arcivescovo ortodosso di Yaroslav, monsignor Nicodemo, il quale, come è stato documentato dopo l'apertura degli archivi di Mosca, era un agente del KGB. In base a questo accordo le autorità ecclesiastiche si impegnarono a non parlare del comunismo in Concilio. Era questa la condizione richiesta dal Cremlino per permettere la partecipazione di osservatori del Patriarcato di Mosca al Concilio Vaticano II (si veda: Jean Madiran, L'accordo di Metz, Il Borghese, Roma 2011). Un appunto di pugno di Paolo VI, conservato nell'Archivio Segreto Vaticano, conferma l'esistenza di questo accordo, come ho documentato nel mio Il Concilio Vaticano II. Una storia non scritta (Lindau, 2010). Altri documenti interessanti sono stati pubblicati da George Weigel nel secondo volume della sua imponente biografia di Giovanni Paolo II (L'inizio e la fine, Cantagalli, 2012).Weigel ha infatti consultato fonti come gli archivi del KGB, dello Sluzba Bezpieczenstewa (SB) polacco e della Stasi della Germania Est, traendone documenti che confermano come i governi comunisti e i servizi segreti dei Paesi orientali penetrarono in Vaticano per favorire i loro interessi e infiltrarsi nei ranghi più alti della gerarchia cattolica. A Roma, negli anni del Concilio e del postconcilio, il Collegio Ungherese divenne una filiale dei servizi segreti di Budapest. Tutti i rettori del Collegio dal 1965 al 1987, scrive Weigel, dovevano essere agenti addestrati e capaci, con competenza nelle operazioni di disinformazione e nell'installazione di microspie. L'SB polacco, secondo lo studioso americano, cercò persino di falsare la discussione del Concilio sui punti peculiari della teologia cattolica come il ruolo di Maria nella storia della salvezza. Il direttore del IV Dipartimento, il colonnello Stanislaw Morawski, lavorò con una dozzina di collaboratori esperti in mariologia per preparare un pro-memoria per i vescovi del Concilio, in cui si criticava la concezione «massimalista» della Beata Maria Vergine del cardinale Wyszynski e di altri presuli.
La costituzione Gaudium et Spes, sedicesimo e ultimo documento promulgato dal Concilio Vaticano II, volle essere una definizione completamente nuova dei rapporti tra la Chiesa e il mondo. In essa mancava però qualsiasi forma di condanna al comunismo. La Gaudium et Spes cercava il dialogo con il mondo moderno, nella convinzione che l'itinerario da esso percorso, dall'umanesimo e dal protestantesimo, fino alla Rivoluzione francese e al marxismo, fosse un processo irreversibile. Il pensiero marx-illuminista e la società dei consumi da esso alimentata era in realtà alla vigilia di una crisi profonda, che avrebbe manifestato i primi sintomi di lì a pochi anni, nella Rivoluzione del '68. I Padri conciliari avrebbero potuto compiere un gesto profetico sfidando la modernità piuttosto che abbracciarne il corpo in decomposizione, come avvenne. Ma oggi ci chiediamo: erano profeti coloro che in Concilio denunciavano l'oppressione brutale del comunismo reclamando una sua solenne condanna o chi riteneva, come gli artefici dell'Ostpolitik, che occorreva trovare un compromesso con la Russia sovietica, perché il comunismo interpretava le ansie di giustizia dell'umanità e sarebbe sopravvissuto uno o due secoli almeno, migliorando il mondo?
Il Concilio Vaticano II, ha affermato recentemente il cardinale Walter Brandmüller, presidente emerito del Pontificio Comitato per le Scienze Storiche, «avrebbe scritto una pagina gloriosa se, seguendo le orme di Pio XII, avesse trovato il coraggio di pronunciare un ripetuta ed espressa condanna del comunismo». Così purtroppo non accadde e gli storici devono registrare come un'imperdonabile omissione la mancata condanna del comunismo da parte di un Concilio che si proponeva di occuparsi del problemi del mondo a lui contemporaneo.

Roberto de Mattei, autore di Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau 2010, vincitore del Premio Acqui Storia 2011 e tradotto o in corso di traduzione in cinque lingue