mercoledì 12 gennaio 2011

"c’è un elemento molto concreto da non sottovalutare. Ed è il fatto che incontri come quello di Assisi mostrano agli occhi dei fedeli di altre religioni un cattolicesimo debole, gentile, che fa domandare: non è che tutta questa fioritura di martiri cristiani sia un frutto perverso di questa stagione dialogante?". Bella domanda.

Ecco perché Benedetto XVI stavolta ad Assisi ci andrà. Dalle critiche dell’86 al giudizio di oggi, Ratisbona e la “Dominus Iesus”
di Paolo Rodari

Joseph Ratzinger il prossimo ottobre andrà ad Assisi, venticinque anni dopo l’incontro di preghiera interreligioso per la pace convocato da Karol Wojtyla. Nel 1986 il raduno guadagnò diverse critiche anche all’interno della curia romana: “Così si apre la strada all’indifferentismo e al relativismo religioso”, era il giudizio di molti, secondo alcuni anche quello dell’allora prefetto dell’ex Sant’Uffizio. E oggi? Perché Benedetto XVI va ad Assisi? Non viene alimentata in questo modo l’idea che una religione valga l’altra? E poi: è giusto dialogare con l’islam senza un esplicito impegno al riconoscimento della libertà religiosa per i cristiani nei paesi musulmani?

Lo storico Giovanni Maria Vian dirige l’Osservatore Romano. Dice: “La decisione di andare ad Assisi è una conseguenza logica della linea che il Papa ha sempre tenuto sui rapporti con le altre religioni fin dall’elezione: confronto amichevole e nello stesso tempo insistenza sulla necessità che venga garantita a tutti la possibilità di essere se stessi, insomma la ‘libertà religiosa’. Assisi in questo senso è evento simbolico, che tuttavia prestò il fianco a interpretazioni sbagliate e chiarite con la dichiarazione ‘Dominus Iesus’, del 2000. E nel 2002 fu il cardinale Ratzinger ad accompagnare il Papa nella città di san Francesco. Il 20 aprile 2005, il giorno dopo l’elezione, Benedetto XVI chiese ‘un dialogo aperto e sincero’ con le altre culture e religioni. Il 20 agosto dello stesso anno, a Colonia, incontrò alcuni musulmani e chiese la stessa cosa. Disse loro: ‘Noi vogliamo ricercare le vie della riconciliazione e imparare a vivere rispettando ciascuno l’identità dell’altro. La difesa della libertà religiosa, in questo senso, è un imperativo costante e il rispetto delle minoranze un segno indiscutibile di vera civiltà’. Dopo Colonia, nel 2006, ci fu Ratisbona. Il centro della ‘lectio’ papale non fu l’islam ma il legame tra fede e ragione. A mio avviso in quell’occasione il Papa venne strumentalizzato. La sua linea era invece quella di sempre: ‘Nemo impediatur, nemo cogatur’, disse Paolo VI sintetizzando la ‘Dignitatis humanae’. Ovvero ‘nessuno sia impedito, nessuno sia costretto’. In questo senso è importante che tutti godano di un’effettiva libertà di religione. Ma è importante anche il dialogo. Assisi è tutto questo”.

Dice in proposito Antonio Socci: “Penso che Assisi sia in un certo senso un compimento di Ratisbona, diciamo l’altra faccia della medaglia. In Germania il Papa disse la verità: non può esserci fede senza ragione. Ma lo disse tendendo la mano all’islam. Questa mano tesa però non venne colta. Oggi ad Assisi è questo che Ratzinger fa. Torna a tendere la mano pur senza rinnegare la verità”.

Secondo alcuni critici, e non solo nell’area più tradizionalista della chiesa, pregare assieme può creare confusione e rischia di annacquare le differenti identità, l’identità cattolica in testa. Dice ancora Vian: “Ogni incontro tra religioni presenta rischi. Tutto però dipende da come viene pensato e presentato. Ratzinger ovviamente sa quello che fa. Non dimentichiamo che fu lui a firmare la dichiarazione ‘Dominus Iesus’ dedicata all’unicità e all’universalità salvifica di Gesù Cristo e della chiesa. Era la dottrina del Vaticano II e di sempre. Una dottrina inequivocabile. Ad Assisi tutto ciò sarà ben presente”. In curia in molti ricordano quando Ratzinger andò ad Assisi nel 2002 per una riedizione del raduno del 1986. Accompagnò Wojtyla. Di ritorno disse ad Andrea Riccardi, capo della Comunità di Sant’Egidio che dall’86 aveva continuato a convocare annualmente i leader religiosi: “Sono molto contento. Tutto si è svolto nel modo giusto”. Una volta a Roma, Ratzinger scrisse le sue riflessioni per il mensile 30Giorni, sembrano una risposta indiretta a quelle critiche. Spiegò che Assisi era “uno splendido segnale di speranza”. Disse che i cristiani “non devono temere” raduni simili perché Assisi non era “un’autorappresentazione di religioni che sarebbero intercambiabili tra di loro. Non si è trattato di affermare una uguaglianza delle religioni, che non esiste. Assisi è stata piuttosto l’espressione di un cammino e di una ricerca per la pace che è tale solo se unita alla giustizia”.

Insomma: ben venga Assisi a patto che ai buoni propositi si accompagni l’affermazione dei diritti dei singoli. Anche “l’assenza di guerra”, scrisse il Papa, “può essere solo un velo dietro al quale si nascondono ingiustizia e oppressione”.

Comunque sia ancora oggi Assisi è un tema che molto fa discutere in Vaticano. Non tutti, anche nella curia, lo digeriscono. Fuori dalla curia i più acerrimi nemici di Assisi sono i lefebvriani. Nelle scorse ore monsignor Bernard Fellay, capo della Fraternità San Pio X, ha detto: “Un brivido mi è passato sulla colonna vertebrale quando ho saputo che il Papa andrà ad Assisi. Si cerca di negare ciò che è accaduto la prima volta”. Cosa? L’accusa è quella che per primo fece Marcel Lefebvre. Fu lui nel 1986, due anni prima della scomunica papale, a calcare la mano su un’accusa dalla quale poi i raduni successivi hanno cercato d’emendarsi: il sincretismo. Fu in quei giorni che venne diffusa una foto che scioccò molti: una teca con una statua di Buddha sull’altare della chiesa di san Pietro, sopra le reliquie del martire Vittorino, ammazzato, 400 anni dopo Cristo, per testimoniare la sua fede.

Ieri sul Foglio alcuni cattolici hanno chiesto al Papa di non riaccendere, andando ad Assisi, le confusioni sincretiste. Filippo Di Giacomo scrive sull’Unità e firmerebbe l’appello del Foglio. Dice: “E’ difficile capire perché il Papa vada ad Assisi. Senz’altro c’è una struttura dialogica ufficiale nella chiesa che sente il bisogno d’essere visibile tramite la realizzazione di gesti del genere. Ma la domanda di fondo resta una: a cosa servono questi incontri? Cosa lasciano? Oltre al rischio che vi sia chi, anche nella chiesa, pensi che Dio sia uno abbia un nome che cambia a seconda della religione che lo professa, c’è un elemento molto concreto da non sottovalutare. Ed è il fatto che incontri come quello di Assisi mostrano agli occhi dei fedeli di altre religioni un cattolicesimo debole, gentile, che fa domandare: non è che tutta questa fioritura di martiri cristiani sia un frutto perverso di questa stagione dialogante?”.

Pubblicato sul Foglio di mercoledì 12 gennaio 2011