lunedì 18 giugno 2012

 Il dialogo ad ogni costo.
Chiesa dialogante e non più docente.

Parlare di dialogo significa occuparsi di quella che Romano Amerio in Iota unum definisce “la più grande variazione della mentalità della Chiesa post conciliare paragonabile a quella seguita al vocabolo libertà nel 1800”[1] , assurgendo a nuova categoria universale della mentalità progressista e diventando una delle realtà centrali del cattolicesimo contemporaneo.

Quando si parla di dialogo ci si riferisce al dialogo ecumenico, al dialogo tra Chiesa e mondo, al dialogo ecclesiale assegnando inopinatamente struttura dialogica alla teologia, alla pedagogia, alla catechesi, alla SS. Trinità, alla storia della salvezza, alla scuola, alla famiglia, al sacerdozio, ai sacramenti, alla redenzione, e a quant’altro nel corso dei secoli appartenesse agli ambiti di interesse ed azione ecclesiali.

In ogni campo « Il passaggio dal discorso tetico, che fu proprio della religione, al discorso ipotetico e problematico è palese sin nella mutazione del titolo dei libri, che un tempo insegnavano e oggi ricercano. Ai libri che andavano come Institutiones o Manuali o Trattati di filosofia o di teologia o di qualunque altra scienza subentrano oggi i Problemi di filosofia, Problemi di teologia, e la manualistica, proprio per il suo pregio tetico[2] e apodittico, viene aborrita e disprezzata ».[3]
 
Già nell'enciclica Ecclesiam suam del 1964, la cui intera parte III è dedicata al dialogo - Paolo VI riduceva ad equazione il dovere che appartiene alla Chiesa di evangelizzare il mondo rispetto al suo dovere di dialogare col mondo. (67. La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio).

Afferma proprio in riferimento a ciò Romano Amerio:
« Ma non si può non avvertire che l’equazione non trova appoggio né nella Scrittura né nel lessico. Nella Scrittura il vocabolo dialogus non si trova mai e l’equivalente latino colloquium è usato solo nel senso di incontro di capi e in quello di conversazione e mai in quello moderno di incontro di persone. Tre volte si trova colloquio nel Nuovo Testamento nel senso di disputa. L’evangelizzazione d’altronde è un annuncio e non una disputa. Nei Vangeli l’evangelizzare comandato agli Apostoli è immediatamente identificato con l’insegnare. Alla dottrina infatti e non alla disputa si riferisce il mandato apostolico e d’altronde il vocabolo stesso eu-angelion=buon annuncio dice qualche cosa che è data da comunicare e non di qualcosa che è gettata alla disputa. Certo negli Atti Pietro e Paolo disputano nelle sinagoghe, ma non è il dialogo nel senso moderno, cioè il dialogo di ricerca movente da uno stato di ignoranza confessa, ma il dialogo di confutazione e di impugnazione dell’errore ».[4]
Cristo Signore parlava con autorità: « Erat docens eos sicut potestatem habens » (Matth., 7, 29), e così le parole di evangelizzazione degli Apostoli devono avere autorità intrinseca che non può esser data dal dialogo. Anzi il parlare tetico di Cristo è contrapposto al parlare dialogico degli Scribi e dei Farisei. Altrimenti si dimentica che « la parola della Chiesa non è parola d’uomo, la quale è sempre controvertibile, ma è parola rivelata, destinata all’accettazione e non alla controversia ».[5] Poiché nella Scrittura il metodo dell’evangelizzazione è l’insegnamento e non il dialogo, la missione di Cristo e dei suoi Apostoli è sigillata dal verbo nell’imperativo μαθητεύσατε -matheteusate: fate discepoli tutti i popoli, identificando l’opera degli Apostoli nel portare i popoli alla condizione di ascoltatori e discepoli e considerando μαθητεύσατε (con la connotazione di “insegnare”) il grado previo di διδάσκειν -didáskein (nel senso di imparare).

E tuttavia l’Ecclesiam suam, dopo aver posto l’equazione tra evangelizzare e dialogare, pone invece disequazione tra evangelizzare la verità e il condannare l’errore e identifica condanna e costrizione. Ritorna il motivo dell’orazione inaugurale del concilio: « Anche la nostra missione » dice l’enciclica « è annuncio di verità indiscutibili e di salute necessaria; non si presenterà armata di esteriore coercizione, ma solo per le vie legittime dell’umana educazione ».

Oltre che il fondamento biblico, manca al dialogo il fondamento gnoseologico, perché la natura del dialogo contraddice alle condizioni del discorso di fede.

Il dialogo attuale si caratterizza, rispetto a quello tradizionale, che aveva per fine la confutazione dell’errore e la conversione dell’interlocutore, dal rifuggire dalla polemica ritenuta non caritatevole, dimenticando che il concetto stesso di polemica è indissolubile dalla contrapposizione tra il vero e il falso. Da qui nasce l’esclusione dell’apologetica, della pretesa di conversione dell’interlocutore e l’asserto che il dialogo «è sempre uno scambio positivo».

Tuttavia così si elimina la possibilità – reale, non ipotetica – del dialogo pervertitore o di quello improduttivo, cadendo in un superficiale ottimismo. Un elemento da non sottovalutare, invece, è che la possibilità di dialogare è correlata alla scienza e alla competenza che si ha dell'oggetto del dialogo. Ne consegue che, in tema di fede, esso non è possibile per tutti. Viceversa oggi sembra che il dialogo dipenda dalla libertà o dalla dignità dell’anima.
« Il titolo a disputare dipende dalla cognizione e non dalla generale destinazione dell’uomo alla verità. Sulle cose ginniche, insegnava Socrate, si ha da ascoltare il perito di ginnastica, e su cavalli il perito di cose cavalline, e su ferite e morbi il perito di medicina, e sulle cose della città il perito di politica. La perizia poi è effetto della fatica e dello studio, della riflessione non corsiva ed estemporanea, ma metodica e assidua. Nel dialogo contemporaneo invece si suppone che ogni uomo, perché razionale, sia atto a dialogare con tutti e sopra tutte le cose. Si richiede perciò che il vivere della comunità civile e il vivere della comunità ecclesiale siano ordinati per tal modo che tutti partecipino non, come vuole il sistema cattolico, recando ciascuno la propria scienza, bensì la propria opinione, e non adempiendo la parte che gli spetta, ma pronunciando su tutto. Ed è singolare che questo titolo a disputare sia esteso all’universale proprio nel momento in cui il titolo autentico, che è la scienza, si indebolisce e scarseggia nello stesso ceto docente della Chiesa ».[6]
Inoltre del dialogo si tende a sottolineare la caratteristica comune della ricerca. La ricerca, per il cristiano che è già nella Terra Promessa costituita dal Suo Signore, che è anche l’approdo di chi ha trovato la “perla preziosa” e il “tesoro nel campo”, assume piuttosto l’aspetto del dialogo con Dio, che diventa cammino, approfondimento, sempre ulteriore radicamento e conoscenza e intimità con Colui che è sì infinitamente Altro, ma è anche più intimo a me di me stesso. (Sant’Agostino, Confessioni, 3, 6, 11).

Non ci si può quindi sottrarre alla conclusione che il dialogo postconciliare non è propriamente il dialogo cattolico, perché la Chiesa dialogante non più docente:
  • si pone come se non possedesse, ma cercasse la verità o come se, dialogando, potesse prescindere dal possesso (non strumentale ma ontologico) e quindi dall’affermazione della verità, attraverso l’insegnamento oltre che con la testimonianza. Chiesa “strumento di salvezza” non soltanto “segno”.
  • non riconosce il primato della verità rivelata, non distinguendo più la diversa scala di valori tra natura e Rivelazione
  • mette sullo stesso piano i dialoganti; il che diventa un peccato contro la fede perché prescinde dal primato che ha la fede divina su qualunque artificio o strumento dialettico.
  • non considera che non tutte le posizioni filosofiche sono indefinitamente disputabili, ignorando i punti di contraddizione che toccano i principi, che troncano il dialogo e lasciano solo la possibilità della confutazione.
  • dà per presupposto che il dialogo sia sempre fruttuoso come se non esistesse « un dialogo corruttore che spianta la verità e impianta l’errore, e come se non si dovesse, nel caso, rigettare l’errore prima professato ».[7]
Il dialogo di convergenza dei soggetti dialoganti verso una verità più alta e più universale non appartiene alla Chiesa cattolica, perché non la riguarda un processo che conosca l’estemporaneità di nuovi percorsi sulle tracce della Verità, che essa già ha ricevuto, “è venuta …”[8], che custodisce, che la anima e di cui è portatrice fino alla fine dei tempi. Ciò che le appartiene e le compete è l’operazione della carità che intenzionalmente comunica una verità posseduta per grazia, con lo scopo di trarre non a sé ma alla verità.

Esiste una evidente asimmetria tra la missione Apostolica e il “dialogo reciproco”: « Tutto quello che abbiamo detto a proposito della dignità della persona umana, della comunità degli uomini, del significato profondo della attività umana, costituisce il fondamento del rapporto tra Chiesa e mondo, come pure la base del dialogo fra loro ». Si arriva perfino ad affermare : « Rivolgiamo anche il nostro pensiero a tutti coloro che credono in Dio e che conservano nelle loro tradizioni preziosi elementi religiosi ed umani, augurandoci che un dialogo fiducioso possa condurre tutti noi ad accettare con fedeltà gli impulsi dello Spirito e a portarli a compimento con alacrità. [...] Essendo Dio Padre principio e fine di tutti, siamo tutti chiamati ad essere fratelli. E perciò, chiamati a una sola e identica vocazione umana e divina, senza violenza e senza inganno, possiamo e dobbiamo lavorare insieme alla costruzione del mondo nella vera pace ».[10]

Se è comprensibile il richiamo alla responsabilità per il bene comune nell'ambito delle prassi, purtroppo la storia millenaria ci insegna come ogni prassi, senza Redenzione, sia destinata a degenerare...

È terribile come viene passato sotto silenzio e alle fine livellato il discrimine tra cristiani e non-credenti o diversamente-credenti, che è la filiazione divina, appartenente all'ordine soprannaturale: una Chiesa che non è più strumento di salvezza, ma solo “segno” o “testimone”. Ma queste non erano categorie appartenenti non all'universalismo cattolico, ma all'universalismo del Popolo ebraico? E non sono forse superate e inserite in un orizzonte escatologico in Cristo Signore?

Altrettanto inquietante alla luce degli attuali sviluppi politico-economico-finanziari su scala globale l’asserto: « Per instaurare un vero ordine economico mondiale, bisognerà rinunciare ai benefici esagerati, alle ambizioni nazionali, alla bramosia di dominazione politica, ai calcoli di natura militaristica e alle manovre tendenti a propagare e imporre ideologie. Vari sono i sistemi economici e sociali proposti; è desiderabile che gli esperti possano trovare in essi un fondamento comune per un sano commercio mondiale. Ciò sarà più facile se ciascuno, rinunciando ai propri pregiudizi, si dispone di buon grado a condurre un sincero dialogo ».[11]

Se l'economia e la finanza sono i nuovi cardini su cui si dipana la storia attuale, questo non meglio identificato “sincero dialogo” appare il nuovo idolo...

Ecco il germe dei riferimenti (vedi ripetuti Incontri di Assisi - e anche) ad una “pace” genericamente scaturente dalle buone volontà umane e non a quella accolta vissuta e diffusa dalla Persona dell'Unico Principe della Pace, nostro Signore Gesù Cristo. Discorsi generici come questo non servono a nessuno e, alla fine, traggono in inganno perché arrivano ad accogliere anche illusorie e aleatorie nonché ambigue speranze di pace, che senza il Signore nessuno è in grado di raggiungere, perché qualunque cosa possa scaturire unicamente da una iniziale “buona volontà” umana, se non fecondata da Cristo, prima o poi è destinata a degenerare. Si tratta della grande fiducia nell'uomo di Paolo VI: la religione dell'uomo. Discorso ampiamente sviluppato nel capitolo dedicato all' “antropocentrismo”. [in parte sviluppato qui] - [vedi anche]

Non possiamo continuare a confondere con la nostra Fede che è in una Persona, il Signore Gesù, l'umanesimo ateo, o quello diversamente credente. Esso, pur se pieno di buone intenzioni, resta ancorato nell'orizzonte materiale, a differenza di quello cristiano, teandrico, che porta in sé la Vita del Redentore!
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1. Romano Amerio, Iota Unum, Lindau 2009, p.323-333
2. “tetico-ponente” è la struttura di posizione attribuita ai principi, dotati di un fondamento già posto, predefinito, di evidenza originaria, che guidano, indirizzano, orientano, mostrano, nell'alveo di un agire finalistico.
3. ibidem
4. ibidem
5. ibidem
6. ibidem
7. ibidem
8. Gv, Prologo, 1-17
9. Gaudium et Spes, 40
10.Gaudium et Spes, 92
11.Gaudium et Spes, 85