XI CONGRESSO TEOLOGICO DEL ‘COURRIER DE ROME’: “VATICANO II, 50 ANNI DOPO: QUALE BILANCIO PER LA CHIESA?”, VERSAILLES-PARIGI 4-5-6 GENNAIO 2013. Resoconto di Cristina Siccardi – (terza e ultima parte)
resoconto di Cristina Siccardi
(terza e ultima parte - per leggere la prima parte, clicca qui , per leggere la seconda parte, clicca qui)
Dopo il problema del metodo deve essere affrontato il problema dell’azione, ossia della prassi e Turco pone dei quesiti: «La prassi costituisce un criterio, oppure richiede (necessariamente) un criterio? Esiste una prassi neutrale rispetto ai valori? Oppure essa è intimamente congrua o incongrua rispetto ai fini? Il primato spetta alla prassi oppure alla teoresi?».
Il razionalismo moderno presuppone l’atto del cogitare indipendentemente dal suo contenuto. In tal senso da Cartesio ad Hegel (fino al pragmatismo contemporaneo) il pensiero si identifica con la sua attività. L’essere ne costituisce un risultato e non il fondamento. La realtà si muta in effettualità, ovvero in complesso di effetti dell’attività. Questa, nella «corsa alla coerenza» dell’immanentismo moderno, diviene l’attività del tutto (degli effetti), che si identifica con il nulla (delle determinazioni).
«Esemplarmente, per Berkeley l’essere delle cose deriva dall’attività del soggetto percipiente: esse est percipi. Per Kant è attraverso l’attività del conoscente che si costituisce il conosciuto, in quanto fenomeno. Per Hegel, l’Assoluto è soggetto e non è sostanza: si identifica con il suo divenire, ovvero con la sua attività dialettica».
Il primato della prassi, affermato dal marxismo, ed il primato della libertà teorizzato dall’esistenzialismo e dal personalismo costituiscono le coerenti conseguenze delle premesse del razionalismo moderno. Il primato della prassi è il primato dell’attività trasformatrice, del produttivo e, quindi, dell’economico. È il primato dell’attività sulla realtà. È il primato della libertà sulla verità. È il primato dell’efficacia sul valore. Il primato della prassi risolve ogni cosa in un risultato attivo e fa della prassi stessa una categoria autonoma, anzi la categoria delle categorie. Ecco che «attivismo», «prassismo», «pastoralismo» vengono ad assumere nel Vaticano II un’importanza di primo piano.
«L’immanentismo prassistico fa coincidere contraddittoriamente mezzo e fine: nega la strumentalità della prassi per identificarla con la sua stessa misura. Pone la verità in dipendenza della prassi. Fa del valore un risultato della prassi. Fa dell’efficacia il criterio della verità. Come è proprio di ogni forma di pragmatismo, che giudica la verità dal successo, e non viceversa».
Nel pensiero classico, pensiero che si coniuga in ogni tempo e ad ogni stagione, è la retta ragione ad essere misura dell’agire e non viceversa. «Nulla dell’agire può essere sottratto alla valutazione del vero e del bene. Non vi è alcuna forma di agire che sia autonoma rispetto al vero e al bene, neppure quella professionale o quella pastorale».
La terza questione affrontata dal docente di Udine è quella della contemporaneità e della modernità. «Come è possibile leggere in alcuni tra i documenti più rappresentativi del Concilio Vaticano II – ed in tal senso indicativi dell’intenzione e delle premesse soggiacenti – esso intende rivolgersi agli “uomini d’oggi”, presupponendo la consistenza propria di tale nozione. Parimenti, tali testi hanno come sfondo il “mondo contemporaneo”. Con la pretesa di rappresentare la “condizione dell’uomo nel mondo contemporaneo” e le caratteristiche più rilevanti di quest’ultimo. Fino a giungere ad affermare che “nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone” .
Ora, proprio la pretesa di individuare sotto il profilo tipologico una fisionomia inconfondibile della contemporaneità, identificata con una rappresentazione antropologica, sociologica e storiologica evidenzia da una parte precisi presupposti teorici e dall’altra pone ineludibili problemi filosofici. Tale impostazione pretende di ridurre l’umano all’antropologico, il sociale al sociologico, lo storico allo storiologico. Presume, cioè, senza argomenti (e senza poterli fornire) di ridurre la realtà (dell’uomo, della società e della storia) alla sua rappresentazione, ottenuta attraverso la tipificazione di generalizzazioni empiriche (quando non si tratti di apriorismi ideologici impliciti)».
La possibilità di fissare la fisionomia dell’uomo contemporaneo sottende la pretesa di conferire realtà autonoma ai caratteri accidentali, considerando così il transeunte come permanente e l’apparente come per se stesso consistente. La tesi della mutazione antropologica dell’«uomo contemporaneo» sottende obiettivamente la negazione della permanenza della natura umana, quindi della sua universalità. Se tale mutazione fosse reale, la stessa natura umana ne risulterebbe vanificata nella sua consistenza ontologica. «Bisognerebbe derivarne l’incomunicabilità dell’umano, circoscritto come tale alla sua tipizzazione attualizzante, e la relativizzazione dei valori, almeno nella loro congruità (effettuale) con l’ “oggi”».
La contemporaneità non è la misura di se stessa. «Di essa si può ben osservare quanto sant’Agostino notava del tempo: sembra un dato evidente quando non lo si faccia oggetto di riflessione, ma appena ci si chiede che cos’è esso appare assolutamente arduo a definirsi. La contemporaneità, pur sembrando evidente, in realtà non lo è affatto. A rigore solo l’istante è contemporaneo di se stesso. Ma tale contemporaneità, proprio in quanto tale è inafferrabile e perciò indicibile. Anzi, l’istante contemporaneo a se medesimo non è che l’effimero: ciò che non dura e non può durare. Ciò che si dissolve di fronte all’incalzare di un nuovo istante. Ciò che è attuale senza essere permanente, è semplicemente effimero». La profondità del pensiero filosofico di Turco apre squarci di illuminante valore dove si comprende, alla fine, l’inconsistenza dei termini «moderno» e «contemporaneo». Se per «tempo si intende – realisticamente – come durata (di ciò che è soggetto al divenire), il contemporaneo di nulla è criterio. Esso trova la sua misura nell’eterno. L’attuale nell’universale. Il transeunte nel permanente. Lo storico nel tradizionale. Il fluire del tempo è degno di essere riscattato dall’oblio, in ragione dei valori che esso reca in sé, grazie allo scrigno della memoria. Sicché la continuità tra le generazioni attraversa gli avvenimenti. Né il passato né il futuro sono irrigiditi in una fissità che li rende ostili al presente, ma essi sono sempre, in qualche modo, presenti al presente. In esso si raccolgono. A partire da esso il passato si prolunga – attraverso la responsabilità dell’agire – nel futuro. Senza cesure ontologiche, nel bene o nel male di ciò che è deciso ed attuato».
L’essenza della modernità, come ha evidenziato la rigorosa analisi di Cornelio Fabro, è costituita dal principio d’immanenza. E proprio sul pensiero e sul mondo moderno il Concilio Vaticano II ha voluto fare i conti, conti che si sono dimostrati spesso effimeri proprio a causa della fugacità del concetto di modernità. Fabro ha rilevato che «il pensiero moderno è tutto accentrato sulla autonomia della coscienza, che è detto principio della libertà, principio dell’autocoscienza, principio dello spirito». In altri termini, la modernità «nella sua accezione propria è legata alla dialettica rigorosa del principio d’immanenza che ha avuto per esito la morte della filosofia con l’espulsione o nientificazione del problema della verità».
L’ultimo problema esposto riguarda «dall’interpretazione all’esegesi». I problemi filosofici di fronte ai quali si è trovato il Concilio Vaticano II e che si profilano attraverso i suoi stessi testi «fanno emergere una questione filosofica non solo ad extra ma anche ab intra». Si tratta di questioni interne alla stessa «lettura» dei testi, e non semplicemente di interpretazioni ad essi estranee. Proprio per questo i problemi emergono, al di là di qualsiasi interpretazione ed attraverso qualsiasi interpretazione. Ecco allora l’estrema necessità di analizzare con attenzione i testi per farne emergere le risposte, ma anche le domande e «cercarne senza infingimenti le soluzioni. Le quali potranno essere appropriate solo se vere, e non viceversa».
Emblematico risulta il caso della Nota esplicativa previa alla Costituzione Lumen Gentium e la nota 1 al Proemio della Costituzione Gaudium et Spes. Siamo di fronte ad un parossismo: un documento che dovrebbe chiarire una dottrina è ritenuto, a sua volta, bisognoso di un chiarimento, attraverso una nota esplicativa del documento stesso: «segno evidente della necessità di precisare criteri per intendere un testo che per la sua stessa natura dovrebbe fornire dei criteri».
L’agire non giustifica l’agire, pertanto la pastorale o la normativa non giustificano se stesse. Senza il fondamento nella verità, naturale e soprannaturale, «si avrebbe (anche con le migliori intenzioni) solo una prassi totalmente dipendente da risultato, quindi una prassi nichilista. Non la circolarità ermeneutica (per se stessa mai definitiva, e quindi sempre precaria) né la condivisione sociologica (per se stessa puramente accidentale, e sempre mutevole), ma solo il suo valore di verità regge l’interpretazione retta. Ma a tale condizione, l’interpretazione neppure è più propriamente interpretazione, ma esegesi, ovvero, in sostanza, lettura della realtà. Nessuna interpretazione può convalidare se stessa, a partire da se stessa. Anzi, a rigore, finché resta nell’orizzonte dell’interpretazione, non riesce a trascenderlo e si pone sul piano di qualunque altra. Restando nel labirinto delle interpretazioni, ci si impedirà ogni possibilità di uscita. Inoltre il fondamento dell’autorità è la verità, pertanto l’ordine del bene, e non viceversa. «Se il problema dei testi è ricondotto alla questione dell’interpretazione, esso è spostato senza essere risolto. L’interpretazione, infatti, rinvia al criterio in base al quale essa è valida (e quindi preferibile rispetto ad ogni altra). Sotto il profilo epistemologico, ogni interpretazione, in quanto tale, è sullo stesso piano di qualsiasi altra interpretazione. In sostanza ogni interpretazione è una sovrapposizione. Essa cioè si sovrappone al testo e lo riferisce all’interprete. L’interpretazione subordina l’interpretato all’interpretante. Il testo perde in certa misura la sua obiettività per convertirsi in strumento dell’interpretazione medesima, attraverso la quale il testo diviene, in certo modo, altro da sé. Talché il criterio si sposta dall’oggetto al soggetto, dall’interpretato all’interpretante. Fino a dovere riconoscere che, nel circuito dell’interpretazione, non possono non esserci tante interpretazioni quanti sono gli interpreti».
Diversamente dall’interpretazionismo moderno san Tommaso d’Aquino insegna che l’unica interpretazione valida è quella vera e non ve ne sono altre, e non dipendono dalle intenzioni dell’interprete, ma dal significato che esso reca in sé. Il ragionamento è cristallino: «Avendo la verità (naturale e soprannaturale) come misura, è possibile evitare ogni ibridismo epistemologico, come quello che – nell’interpretazione dei testi del Vaticano II – presume di individuarne la cifra nella “sintesi di tradizione e di aggiornamento”. Tali termini, infatti, manifestano un carattere obiettivamente anfibologico: possono cioè assumere, restando (morfologicamente) immutati, significati diversi ed opposti».
Solo passando dall’interpretazione all’esegesi possono essere affrontati i problemi senza nasconderli: la via dell’esegesi è la via del primato della verità, «diversa dalla pretesa di un’obbedienza che surroga la verità e che, come tale, svuota di verità l’obbedienza stessa, mutandola in esecuzione». È la via che esclude ogni «divieto di fare domande», tipico del razionalismo totalizzante delle ideologie; è la via epistemica capace di affrontare le questioni in maniera definitiva. «Solo l’esegesi può consentire di chiarire i termini per se stessi, di cogliere presupposti impliciti e di indagarne la consistenza (quindi la verità), di saggiare la coerenza (o meno) delle argomentazioni, di formulare (ove si rendano necessarie) integrazioni e correzioni».
L’Abbé Yves le Roux ha spiegato come tutti i Concili ecumenici sono stati indetti affinché la Chiesa rispondesse a dei problemi e ciò ha comportato approfondimenti dottrinali e conseguenti definizioni dogmatiche sui punti controversi con un preciso rilancio dell’azione pastorale, tesa a riguadagnare il terreno perduto. La convocazione di un Concilio è sempre meditata, dolorosa, sofferta in quanto viene riconosciuta una ferita, una crisi all’interno della Chiesa, alla quale bisogna rispondere. Il Concilio Vaticano II, invece, per espressa dichiarazione di Giovanni XXIII, che lo ha convocato, è il frutto di un’illuminazione istantanea, carica di ottimismo. Anzi la Chiesa è percepita dal Papa come particolarmente forte, addirittura in grado di portare aiuto al mondo in una fase di trapasso che il Concilio dovrà accelerare al fine di creare una società di pace e di giustizia sulla terra. La conseguenza è che non ci saranno più né definizioni dottrinali da dare, né errori da condannare. Sarà il primo Concilio di «bell’esempio». Una novità fu quella dell’introduzione degli osservatori acattolici all’interno del Concilio. Anche Pio IX li aveva invitati, ma nel Vaticano II essi assumono un ruolo assolutamente attivo e propositivo.
Una mansione abnorme sarà assunta dai periti: una grande quantità di Vescovi impreparati saranno in balia dei loro esperti; diventerà addirittura il «Concilio dei periti», come sarà definito dai giornalisti.
Altra differenza assoluta con i precedenti concili è stata la funzione assunta dai mezzi di comunicazione di massa, che sono stati determinanti nel dirimere le questioni conciliari e nell’indirizzare l’opinione pubblica. Come non pensare, allora, al Cardinale Suenes, che parlava spesso con i giornalisti? In tal modo, accattivandosi la stampa, egli otteneva il favore mediatico per sé e per le idee che esponeva al Concilio, per esempio quelle riguardanti la libertà religiosa.
L’Abbé Jean-Michel Gleize ha spiegato che esiste un Magistero, ma ci sono due concezioni di Magistero. Ha iniziato il suo argomentare teologico spiegando che la Rivelazione divina può essere intesa in due sensi: «Dio si manifesta liberamente e in maniera soprannaturale al genere umano, che consiste nella visione dell’essenza divina che ci parla attraverso i profeti dell’Antico Testamento e per mezzo di Cristo, comunicando alla nostra intelligenza la conoscenza dei misteri soprannaturali della fede e delle verità naturali della religione. Il secondo senso della Rivelazione è il depositum, ossia l’insieme delle verità oggettive comunicate nella Rivelazione in senso attivo e registrato nelle fonti sia scritte che non».
La Chiesa può essere intesa in due sensi: «Nel primo senso la Chiesa si definisce come l’insieme di tutti i fedeli battezzati, che sono membri della stessa società cattolica. Nel secondo la Chiesa si definisce nella sua causa formale come un insieme ordinato, secondo una relazione di dipendenza fra i pastori e il gregge, ovvero fra i membri della gerarchia che governa, insegnando e santificando in virtù della missione divina ricevuta da Cristo e l’altra parte dei semplici fedeli battezzati». San Pio X nel giuramento anti-modernista utilizza questi termini: «Io credo anche fermamente che la Chiesa è stata istituita da Cristo come la custode e la maestra della Parola rivelata» e Leone XIII spiega nell’Enciclica Satis cognitum le ragioni di questa espressione: è nella gerarchia che la Chiesa è maestra e custode della Parola di Dio. Gli Apostoli, infatti, consacrando dei vescovi e designandoli nominativamente conferiscono loro la carica e la missione d’insegnare. La responsabilità della gerarchia è, dunque, immensa. Il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica nel 2005 n ° 15 dice che il deposito della fede è affidato a tutta la Chiesa, chiamata a trasmettere la verità. Nella Esortazione Verbum Domini Papa Benedetto XVI ha detto che «La Parola di Dio ci ha dato la vita divina che trasfigura la faccia della terra, facendo nuove tutte le cose (cfr Ap 21, 5). La Sua Parola ci rende non solo i destinatari della rivelazione divina, ma i suoi messaggeri», pertanto la missione di annunciare la Parola di Dio è il compito di tutti i discepoli di Gesù Cristo, come conseguenza del loro battesimo. Ha affermato l’Abbé Gleize: «Nessun credente in Cristo può sentirsi estraneo alla responsabilità che deriva dalla appartenenza al Corpo sacramentale di Cristo. Questa consapevolezza deve essere risvegliata in ogni famiglia, parrocchia, comunità, associazione e movimento ecclesiale. La Chiesa come mistero di comunione è missionaria e ciascuno, secondo il suo stato di vita, è chiamato a dare il suo contributo» di servizio come Chiesa, istituzione divina voluta da Cristo, dove il ruolo della Tradizione, inteso come trasmissione, è fondante. La gerarchia è chiamata ad esercitare il Magistero per insegnare con l’autorità di Dio e i fedeli ricevono questo insegnamento del Magistero. Il Vaticano II «si propone di istituire una nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno», è questo il grande problema perché «la dottrina della fede è stata presentata in modo tale da rispondere alle esigenze del nostro tempo».
Attenzione, dunque, alle due concezioni di Magistero: quello che procede per via della ricerca scientifica, mirando a scoprire nuove verità, che si fa portavoce della Comunità e che traduce le moderne intuizioni in linguaggio concettuale, e il Magistero ecclesiastico, che non ha lo scopo di scoprire nuove verità, ma trasmette sempre la stessa identica verità rivelata. Il fondatore di questo Magistero è Cristo che ha chiamato i suoi discepoli ad attestare la verità, quella che si tramanda, attraverso l’insegnamento della e nella Tradizione, per via Apostolica. L’atto del Magistero ecclesiastico (dove si concretizza l’unità di tempo e spazio dell’educazione religiosa) non può né proclamare l’errore, né negare o semplicemente mettere in dubbio la verità già proclamata. «I frutti del Magistero pastorale inaugurato dal Concilio Vaticano II ha determinato una diffusa protestantizzazione della Chiesa e una considerevole diminuzione di fede». Nel Vaticano II è emersa una docenza diversa rispetto alla Tradizione e la progettazione dell’insegnamento ecclesiale che è maturato in questi 50 anni è profondamente cambiata rispetto al preconcilio e va di pari passo con un nuovo concetto di Rivelazione (quella storicistica), di Chiesa e di Tradizione, dove l’orizzontale ha preso il sopravvento sul verticale, l’immanente sul soprannaturale. Insomma «l’insegnamento del Vaticano II obbedisce a una logica diversa», quella dell’immanenza, «una logica completamente nuova, estranea alla definizione del Magistero cattolico» e questa nuova logica prevale all’interno della Chiesa e propone una concezione di insegnamento che segue un indirizzo soggettivistico, chiaro frutto della malattia che ha colpito la Chiesa e il Magistero: il Modernismo, il liberalismo, che sono stati introdotti «come un parassita o un corpo estraneo (un “Alien”) nel corpo della Chiesa. Ci auguriamo che questo mostro finirà per essere rimosso. E Pietro, alla fine, sarà liberato da queste catene, poiché la soluzione sta in quel: “Tu es Petrus et super hanc Petram aedificabo Ecclesiam Meam”».
La giornata di sabato 5 gennaio è stata chiusa dall’Abbé Alain Lorans, il quale ha affermato che nessuno può negare il fatto che esista una crisi della Chiesa, ma tale constatazione deve essere vista dai cattolici alla luce della fede. A differenza di tutti i Concili precedenti, il Vaticano II è stato il Concilio che ha invocato «l’aggiornamento», ossia l’adattamento della Chiesa al mondo moderno. Di fatto si è impedita la vera riforma della Chiesa che non è altro che instaurare omnia in Christo, ripristinando tutte le cose in Lui.
Come giustamente ha scritto Romano Amerio in Iota Unum: «Il mondo rifiuta la dipendenza tranne nei confronti di se stesso. La Chiesa sembra aver paura di essere respinta» da esso, allora cerca di scolorire le sue particolarità meritorie e di colorare i tratti che ha in comune con il mondo moderno, un mondo che si autocelebra nel cosiddetto «progresso umano».
Domenica 6 dicembre, giorno dell’Epifania di Nostro Signore, dopo una bellissima Santa Messa Pontificale celebrata da Monsignor Bernard Fellay a Saint Nicolas du Chardonnet nel cuore di Parigi, dai cui muri secolari trasuda il patrimonio cattolico-romano di una fede tramandata di parroco in parroco, di padre in figlio, il Superiore della Fraternità San Pio X ha chiuso i lavori del Congresso teologico facendo un bilancio complessivo: dopo 50 anni dall’apertura del Concilio Vaticano II la risposta della Fraternità, voluta dal Vescovo Monsignor Marcel Lefebvre nel 1970, continua ad essere la stessa, quella che il padre fondatore ha ricordato fino all’ultimo suo respiro, citando san Paolo: «Tradidi quod accepi» («Ho trasmesso quello che ho ricevuto»). Inoltre Monsignor Fellay ha esortato i presenti a porre la Santa Messa al centro di tutto, perché ogni cosa deriva da questa inesauribile fonte. «Tutto nella vita cristiana deriva dal Sacrificio di Nostro Signore sulla Croce, rinnovato nella Messa, proprio qui troveremo la soluzione a questa crisi. La pastorale vera sta nel Santo Sacrificio e soltanto tale “pastorale” conduce le anime a Cristo». Questo lo spirito cristiano e noi «dobbiamo vivere la grazia di nostro Signore. Questa è la cura. Il sacerdote deve diventare un altro Cristo», dunque salire all’altare in persona Christi. Non è sufficiente, ha dichiarato il Vescovo, avere una tonaca e celebrare la messa in latino; il sacerdote è chiamato all’imitazione di Gesù Cristo e tale imitazione sarà il rimedio, una cura «essenzialmente soprannaturale». Egli ha poi toccato il problema esistente tra la FSSPX e Roma, che, dopo i colloqui dottrinali, è ritornato al punto di partenza. «La soluzione proposta dalla Fraternità è quella di san Vincenzo di Lerins»: se la Chiesa è malata ha bisogno di cure e la terapia si chiama Tradizione. «Cosa fare ora? Lasciare la Chiesa? Certo che no! Non vi è alcuna altra chiesa che la Chiesa cattolica! La Chiesa è nostra madre, è malata, ma è la Chiesa fondata da Nostro Signore, il quale ha promesso che le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. Non abbiamo mai inventato una chiesa per noi! Non resta che pregare, invocare la grazia e compiere ognuno il dovere del proprio stato. Chiediamo a san Giuseppe, protettore del Bambino Gesù, di proteggere la Chiesa. È per questo che il 19 marzo prossimo consacreremo a lui, ad Écône, la Fraternità San Pio X».
(Fine)