Copiare la prassi ortodossa
sui divorziati risposati? Impossibile.
di monsignor Cyril Vasil’ S.I.
Fino a qualche decina di anni fa, la posizione teologica e la prassi delle Chiese ortodosse nei confronti della separazione degli sposi, dello scioglimento del vincolo coniugale, del divorzio e della possibilità di contrarre un nuovo matrimonio con la benedizione della Chiesa riscuoteva l’interesse di una cerchia ristretta di teologi e di canonisti cattolici. Negli ultimi anni, invece, questi temi hanno suscitato la curiosità di una audience più vasta. Un’altra ragione di interesse è il dibattito, in aumento all’interno di alcuni ambienti cattolici, sulla pratica della oikonomia della Chiesa ortodossa nel contesto del divorzio e dei nuovi matrimoni. (…) Tenteremo di rispondere a due domande specifiche:
a) Quale dovrebbe essere la posizione dei ministri e dei tribunali ecclesiastici preposti alla valutazione dei decreti e dei documenti, rilasciati dalla Chiesa ortodossa, che dichiarano l’invalidità, lo scioglimento o il divorzio di un matrimonio contratto nelle Chiese ortodosse insieme con il permesso di sposarsi nuovamente?
b) A fronte della sempre maggiore instabilità del matrimonio sacramentale, la prassi adottata dalle Chiese ortodosse può essere considerata una “via d’uscita” per la chiesa cattolica, offrendo uno strumento pastorale per quei cattolici che, dopo il fallimento di un matrimonio sacramentale e il successivo conseguimento di un divorzio civile, contraggono un secondo matrimonio civile?
b) A fronte della sempre maggiore instabilità del matrimonio sacramentale, la prassi adottata dalle Chiese ortodosse può essere considerata una “via d’uscita” per la chiesa cattolica, offrendo uno strumento pastorale per quei cattolici che, dopo il fallimento di un matrimonio sacramentale e il successivo conseguimento di un divorzio civile, contraggono un secondo matrimonio civile?
L’indissolubilità del matrimonio sacramentale in Oriente e in Occidente: fonti comuni e differenze interpretative
Esaminando come si sia formata l’idea dell’indissolubilità del matrimonio fra i cristiani dei primi secoli, bisogna riconoscere che la chiesa antica non aveva elaborato una specifica teoria del diritto matrimoniale. I testi di san Paolo, così come la tradizione sinottica, sono mossi dal desiderio di presentare gli insegnamenti di Cristo sulla dignità del matrimonio nelle situazioni concrete delle rispettive società, sia nella cristianità sorta dalle radici giudaiche che in quella nata e cresciuta all’interno del contesto sociale greco e romano. Secondo gli esegeti biblici, è precisamente per questa ragione che il testo di Matteo che proibisce il divorzio contiene anche le clausole sui casi di concubinato, di unione illegittima, di fornicazione (Mt 5,32; 19,9). Infatti, per la mentalità del tempo, il fatto che un marito continuasse a vivere con la moglie dopo che questa gli era stata infedele era socialmente, psicologicamente e anche praticamente impensabile. Tale approccio deriva da un concetto dell’Antico Testamento attestato in Geremia. La donna che commetteva adulterio veniva legittimamente ripudiata dal marito e né lui poteva tornare da lei, né lei poteva più tornare da lui. La donna veniva considerata impura e qualunque uomo l’avesse accettata come moglie sarebbe divenuto partecipe del suo peccato: “Se un uomo ripudia la moglie ed ella si allontana da lui per appartenere ad un altro tornerà il primo ancora da lei? Quella terra non sarebbe tutta contaminata?” (Ger 3,1). Analogamente, nel Deuteronomio leggiamo: “Se ella, uscita dalla casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito e anche questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio, glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o se quest’altro marito, che l’aveva presa per moglie, muore, il primo marito, che l’aveva rinviata, non potrà riprenderla per moglie, dopo che lei è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore” (Dt 24,2-4). Nel corso delle successive interpretazioni esegetiche e canoniche, la clausola di Matteo – eccetto i casi di fornicazione, concubinato e unione illegittima – ha contribuito al processo di differenziazione nella comprensione dell’indissolubilità del matrimonio. Non è questa la sede per analizzare le varie esegesi del passo di Matteo; basti qui richiamare l’idea che l’adulterio, in particolare l’adulterio compiuto dalla moglie, era considerato dai cristiani un peccato grave contro il vincolo coniugale e, in generale, era ritenuto un motivo sufficiente per la rottura del vincolo e per la separazione. La questione se la separazione causata dall’adulterio consentisse a entrambi, o almeno alla parte innocente, di contrarre un nuovo matrimonio resta invece aperta. Basilio Petrà osserva che il punto nodale della questione è il comando di non separare ciò che Dio ha unito (cfr. Mc 10,9). La tradizione che si è sviluppata nell’Oriente ortodosso ha interpretato questo comando come un imperativo morale, che può essere ignorato o violato dall’uomo peccatore; in questo caso il termine porneia viene interpretato come una effettiva eccezione all’indissolubilità del matrimonio. La tradizione accettata in Occidente e comune nella chiesa cattolica, sia latina che orientale, vede invece in questo comando un’indicazione della natura oggettiva del vincolo matrimoniale, che gli sposi non possono sciogliere nemmeno come conseguenza dei loro comportamenti. La parola di Dio stabilisce infatti che il matrimonio è un legame così stabile da rimanere intatto perfino dopo la separazione, e perciò le azioni volte a contrarre un altro matrimonio vanno equiparate all’adulterio. Dobbiamo qui rilevare una difficoltà terminologica. Oggi, in linea con la tradizione canonica occidentale accettata anche dal- le Chiese cattoliche orientali, siamo abituati a distinguere varie espressioni: separazione degli sposi con permanenza del vincolo coniugale; scioglimento del vincolo coniugale, quando ad esempio abbiamo un matrimonio ratum et non consummatum, oppure sulla base del privilegio paolino o del privilegio petrino; dichiarazione di nullità del matrimonio, cioè un pronunciamento per cui il matrimonio de facto non è mai stato veramente e giuridicamente contratto, ad esempio a causa di un impedimento o di una mancanza di consenso; divorzio, ovvero l’intervento di autorità secolari che, da un punto di vista civile, sciolgono il vincolo coniugale consentendo alle parti di contrarre un altro matrimonio civile. Per la chiesa cattolica, tuttavia, in presenza di un matrimonio sacramentale, il divorzio civile è considerato irrilevante, sia dal punto di vista spirituale che rispetto alla permanenza del vincolo. In questo caso, dunque, ogni nuova convivenza, anche nella forma di un matrimonio civile, è considerata un peccato grave che impedisce l’accesso alla comunione eucaristica. Queste distinzioni terminologiche emergono da un lungo percorso storico, e sbaglieremmo se ci aspettassimo di trovarle nei primi autori cristiani o nei testi giuridici dei primi secoli. Dobbiamo anzi tenere ben presente che esiste una certa disparità terminologica fra autori antichi e autori moderni appartenenti alla tradizione cristiana orientale. In generale, i Padri della chiesa dei primi cinque secoli erano fautori decisi del principio di indissolubilità del matrimonio, come pure dell’illegittimità di nuovi matrimoni quando l’adulterio di uno dei due avesse portato alla separazione della coppia. Tali principi non vengono scardinati dalla presenza di rarissimi testi con valutazioni ambigue o che mostrano una certa comprensione razionale per chi si discosta dal Vangelo e una tolleranza pastorale in casi isolati di divorziati risposati. Questa posizione netta nei confronti del matrimonio cristiano è confermata anche dalla normativa ecclesiastica dei primi secoli, formulata in occasione dei Sinodi e dei Concili particolari o ecumenici.
Esaminando come si sia formata l’idea dell’indissolubilità del matrimonio fra i cristiani dei primi secoli, bisogna riconoscere che la chiesa antica non aveva elaborato una specifica teoria del diritto matrimoniale. I testi di san Paolo, così come la tradizione sinottica, sono mossi dal desiderio di presentare gli insegnamenti di Cristo sulla dignità del matrimonio nelle situazioni concrete delle rispettive società, sia nella cristianità sorta dalle radici giudaiche che in quella nata e cresciuta all’interno del contesto sociale greco e romano. Secondo gli esegeti biblici, è precisamente per questa ragione che il testo di Matteo che proibisce il divorzio contiene anche le clausole sui casi di concubinato, di unione illegittima, di fornicazione (Mt 5,32; 19,9). Infatti, per la mentalità del tempo, il fatto che un marito continuasse a vivere con la moglie dopo che questa gli era stata infedele era socialmente, psicologicamente e anche praticamente impensabile. Tale approccio deriva da un concetto dell’Antico Testamento attestato in Geremia. La donna che commetteva adulterio veniva legittimamente ripudiata dal marito e né lui poteva tornare da lei, né lei poteva più tornare da lui. La donna veniva considerata impura e qualunque uomo l’avesse accettata come moglie sarebbe divenuto partecipe del suo peccato: “Se un uomo ripudia la moglie ed ella si allontana da lui per appartenere ad un altro tornerà il primo ancora da lei? Quella terra non sarebbe tutta contaminata?” (Ger 3,1). Analogamente, nel Deuteronomio leggiamo: “Se ella, uscita dalla casa di lui, va e diventa moglie di un altro marito e anche questi la prende in odio, scrive per lei un libello di ripudio, glielo consegna in mano e la manda via dalla casa o se quest’altro marito, che l’aveva presa per moglie, muore, il primo marito, che l’aveva rinviata, non potrà riprenderla per moglie, dopo che lei è stata contaminata, perché sarebbe abominio agli occhi del Signore” (Dt 24,2-4). Nel corso delle successive interpretazioni esegetiche e canoniche, la clausola di Matteo – eccetto i casi di fornicazione, concubinato e unione illegittima – ha contribuito al processo di differenziazione nella comprensione dell’indissolubilità del matrimonio. Non è questa la sede per analizzare le varie esegesi del passo di Matteo; basti qui richiamare l’idea che l’adulterio, in particolare l’adulterio compiuto dalla moglie, era considerato dai cristiani un peccato grave contro il vincolo coniugale e, in generale, era ritenuto un motivo sufficiente per la rottura del vincolo e per la separazione. La questione se la separazione causata dall’adulterio consentisse a entrambi, o almeno alla parte innocente, di contrarre un nuovo matrimonio resta invece aperta. Basilio Petrà osserva che il punto nodale della questione è il comando di non separare ciò che Dio ha unito (cfr. Mc 10,9). La tradizione che si è sviluppata nell’Oriente ortodosso ha interpretato questo comando come un imperativo morale, che può essere ignorato o violato dall’uomo peccatore; in questo caso il termine porneia viene interpretato come una effettiva eccezione all’indissolubilità del matrimonio. La tradizione accettata in Occidente e comune nella chiesa cattolica, sia latina che orientale, vede invece in questo comando un’indicazione della natura oggettiva del vincolo matrimoniale, che gli sposi non possono sciogliere nemmeno come conseguenza dei loro comportamenti. La parola di Dio stabilisce infatti che il matrimonio è un legame così stabile da rimanere intatto perfino dopo la separazione, e perciò le azioni volte a contrarre un altro matrimonio vanno equiparate all’adulterio. Dobbiamo qui rilevare una difficoltà terminologica. Oggi, in linea con la tradizione canonica occidentale accettata anche dal- le Chiese cattoliche orientali, siamo abituati a distinguere varie espressioni: separazione degli sposi con permanenza del vincolo coniugale; scioglimento del vincolo coniugale, quando ad esempio abbiamo un matrimonio ratum et non consummatum, oppure sulla base del privilegio paolino o del privilegio petrino; dichiarazione di nullità del matrimonio, cioè un pronunciamento per cui il matrimonio de facto non è mai stato veramente e giuridicamente contratto, ad esempio a causa di un impedimento o di una mancanza di consenso; divorzio, ovvero l’intervento di autorità secolari che, da un punto di vista civile, sciolgono il vincolo coniugale consentendo alle parti di contrarre un altro matrimonio civile. Per la chiesa cattolica, tuttavia, in presenza di un matrimonio sacramentale, il divorzio civile è considerato irrilevante, sia dal punto di vista spirituale che rispetto alla permanenza del vincolo. In questo caso, dunque, ogni nuova convivenza, anche nella forma di un matrimonio civile, è considerata un peccato grave che impedisce l’accesso alla comunione eucaristica. Queste distinzioni terminologiche emergono da un lungo percorso storico, e sbaglieremmo se ci aspettassimo di trovarle nei primi autori cristiani o nei testi giuridici dei primi secoli. Dobbiamo anzi tenere ben presente che esiste una certa disparità terminologica fra autori antichi e autori moderni appartenenti alla tradizione cristiana orientale. In generale, i Padri della chiesa dei primi cinque secoli erano fautori decisi del principio di indissolubilità del matrimonio, come pure dell’illegittimità di nuovi matrimoni quando l’adulterio di uno dei due avesse portato alla separazione della coppia. Tali principi non vengono scardinati dalla presenza di rarissimi testi con valutazioni ambigue o che mostrano una certa comprensione razionale per chi si discosta dal Vangelo e una tolleranza pastorale in casi isolati di divorziati risposati. Questa posizione netta nei confronti del matrimonio cristiano è confermata anche dalla normativa ecclesiastica dei primi secoli, formulata in occasione dei Sinodi e dei Concili particolari o ecumenici.
L’influenza del diritto civile romano e bizantino su divorzio e successivo nuovo matrimonio
Nell’era pre-cristiana, il diritto romano permetteva il divorzio per due ordini di motivi: per un accordo fra le parti (dissidium) o per il ripudio di una delle parti a causa di una colpa dell’altra (repudium). Una ragione di divorzio poteva essere anche la perdita da parte di uno dei due della libertà personale o della posizione sociale (…). Il maggior riformatore del diritto romano, l’imperatore Giustiniano I (527-565), volle applicare la sua riforma del diritto matrimoniale alla chiesa. Giustiniano, nella Novella 111 e soprattutto nella Novella 117 del 542, abolì il divorzio per accordo delle parti. La trasgressione di questa Novella era sanzionata dalla Novella 134 del 556 con la pena della reclusione in monastero (…). La legislazione di Giustiniano specificava le possibili cause di divorzio nel modo seguente. Primo gruppo: ragioni di bona gratia. Gli sposi potevano se- pararsi e divorziare se per almeno tre anni non si fosse avuto alcun atto coniugale, o se il marito – divenuto prigioniero di guerra – non fosse ritornato a casa entro cinque anni. L’unico caso possibile di divorzio per consenso delle parti era il desiderio di uno dei due di entrare in monastero. Secondo gruppo: ragioni di iusta causa o cum damno. Il marito poteva divorziare dalla moglie se questa avesse preso parte ad un complotto contro l’imperatore, se avesse commesso adulterio, se avesse messo in pericolo la vita del marito, se avesse tentato di ucciderlo o collaborato con chi tentava di ucciderlo, infine se avesse accusato ingiustamente il marito di adulterio mentre lei viveva in stato di concubinato. La moglie invece poteva ottenere il divorzio se suo marito l’avesse spinta all’adulterio, se avesse posto la sua vita in pericolo, se il marito la avesse accusata di adulterio senza prove o se lui stesso conduceva una vita di scandalo. Leone VI aggiunse a questa lista dell’imperatore Giustiniano le fattispecie della malattia mentale e dell’aborto volontario. La Novella 117 di Giustiniano era un compromesso fra la tradizione della chiesa orientale – che consentiva la separazione per adulterio o per entrare in monastero – e il diritto romano che permetteva il divorzio per molti altri motivi. Si dice spesso che la chiesa orientale, nel suo desiderio di vivere in armonia con l’autorità civile, abbia fatto molte concessioni, anche a costo di alterare il messaggio evangelico. Si può tuttavia affermare che, generalmente, nel corso del primo millennio anche in Oriente la chiesa aderiva all’assioma di san Girolamo secondo cui “aliae sunt leges Caesarum aliae Christi”. Nel caso della Novella 117, ad esempio, per diversi secoli la chiesa bizantina rifiutò di incorporarla nella legge ecclesiastica (…) La chiesa bizantina dunque, anche con radicalità e spesso a costo di entrare in conflitto con il volere dell’imperatore, giustificava la distinzione fra l’applicazione delle leggi civili e quella delle leggi ecclesiastiche (…). Il primo vero cambiamento si ebbe invece con il Nomocanone in 14 titoli redatto dal patriarca Fozio nell’883, in cui – mentre si affermava l’indissolubilità del matrimonio – si prevedeva anche una lista di motivazioni per il divorzio, nella forma introdotta dalla legislazione di Giustiniano. Il successivo sviluppo dell’impero bizantino rafforzò, da una parte, il ruolo della chiesa, dall’altra aprì la strada a una sovrapposizione delle due istituzioni, lo Stato e la chiesa. La nuova compilazione della legislazione civile operata dall’imperatore Basilio I, il Basilikà, rielaborò il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano cercando invero di omettere alcuni punti proble- matici della precedente legislazione che erano in contrasto con le posizioni della chiesa. Tuttavia, nel Sinodo di Costantinopoli del 920, il Nomocanone di Fozio fu approvato come collezione ufficiale delle leggi di Bisanzio, ammettendo alcune possibilità di divorzio per le ragioni previste dalla legge. Inoltre, fino alla fine del IX secolo era ancora possibile contrarre il matrimonio civile, ma dall’anno 895, sulla base della Novella 89 dell’imperatore Leone IV, la chiesa fu proclamata l’unica istituzione legalmente competente a cele- brare i matrimoni. In questo modo, la benedizione sacerdotale divenne una parte necessaria dell’atto civile del matrimonio e la chiesa si trovò a ricoprire il ruolo di garante del matrimonio come istituzione sociale. In conseguenza di ciò, i tribunali ecclesiastici divennero gradualmente – e nel 1086 definitivamente – gli organi competenti in via esclusiva per l’esame dei casi matrimoniali: la chiesa orientale doveva così conformare il suo esercizio allo Stato e alla legge civile. Una volta che la legge civile iniziò a consentire il divorzio e i successivi nuovi matrimoni, la chiesa orientale si trovò dunque obbligata a riconoscere queste pratiche. Il primo patriarca che parve guardare il divorzio con benevolenza fu Alessio I di Costantinopoli (1025-1043). Egli infatti proibì il matrimonio con le donne ripudiate per adulterio, e minacciò di sospensione dal loro ministero i sacerdoti che osavano benedire seconde nozze con tali donne; tuttavia, ordinò che questa norma non fosse applicata a coloro che si erano separati dalla parte colpevole, consentendo invece la benedizione delle seconde nozze per quelle donne che avevano richiesto il divorzio a causa del comportamento immorale del marito. Commentando questa norma, Pietro Dacquino suggerisce che potrebbe trattarsi anche qui di “fidanzati”, perché il quarto decreto punisce severamente il sacerdote che avesse impartito la benedizione nuziale a coloro che avevano divorziato consensualmente, andando anche contro la legge civile. Difatti, tenendo conto della severità dimostrata dalle Chiese orientali nei riguardi delle seconde nozze dei vedovi, comprendiamo come anche quelle di coloro che avevano rotto il fidanzamento (considerato in Oriente già un primo matrimonio) potessero essere un problema per l’ideale di stretta monogamia coltivato a quel tempo. Tendenze più severe ponevano questi “fidanzati” sullo stesso piano dei vedovi, privandoli perciò della benedizione nuziale se si risposavano. (…)
Nell’era pre-cristiana, il diritto romano permetteva il divorzio per due ordini di motivi: per un accordo fra le parti (dissidium) o per il ripudio di una delle parti a causa di una colpa dell’altra (repudium). Una ragione di divorzio poteva essere anche la perdita da parte di uno dei due della libertà personale o della posizione sociale (…). Il maggior riformatore del diritto romano, l’imperatore Giustiniano I (527-565), volle applicare la sua riforma del diritto matrimoniale alla chiesa. Giustiniano, nella Novella 111 e soprattutto nella Novella 117 del 542, abolì il divorzio per accordo delle parti. La trasgressione di questa Novella era sanzionata dalla Novella 134 del 556 con la pena della reclusione in monastero (…). La legislazione di Giustiniano specificava le possibili cause di divorzio nel modo seguente. Primo gruppo: ragioni di bona gratia. Gli sposi potevano se- pararsi e divorziare se per almeno tre anni non si fosse avuto alcun atto coniugale, o se il marito – divenuto prigioniero di guerra – non fosse ritornato a casa entro cinque anni. L’unico caso possibile di divorzio per consenso delle parti era il desiderio di uno dei due di entrare in monastero. Secondo gruppo: ragioni di iusta causa o cum damno. Il marito poteva divorziare dalla moglie se questa avesse preso parte ad un complotto contro l’imperatore, se avesse commesso adulterio, se avesse messo in pericolo la vita del marito, se avesse tentato di ucciderlo o collaborato con chi tentava di ucciderlo, infine se avesse accusato ingiustamente il marito di adulterio mentre lei viveva in stato di concubinato. La moglie invece poteva ottenere il divorzio se suo marito l’avesse spinta all’adulterio, se avesse posto la sua vita in pericolo, se il marito la avesse accusata di adulterio senza prove o se lui stesso conduceva una vita di scandalo. Leone VI aggiunse a questa lista dell’imperatore Giustiniano le fattispecie della malattia mentale e dell’aborto volontario. La Novella 117 di Giustiniano era un compromesso fra la tradizione della chiesa orientale – che consentiva la separazione per adulterio o per entrare in monastero – e il diritto romano che permetteva il divorzio per molti altri motivi. Si dice spesso che la chiesa orientale, nel suo desiderio di vivere in armonia con l’autorità civile, abbia fatto molte concessioni, anche a costo di alterare il messaggio evangelico. Si può tuttavia affermare che, generalmente, nel corso del primo millennio anche in Oriente la chiesa aderiva all’assioma di san Girolamo secondo cui “aliae sunt leges Caesarum aliae Christi”. Nel caso della Novella 117, ad esempio, per diversi secoli la chiesa bizantina rifiutò di incorporarla nella legge ecclesiastica (…) La chiesa bizantina dunque, anche con radicalità e spesso a costo di entrare in conflitto con il volere dell’imperatore, giustificava la distinzione fra l’applicazione delle leggi civili e quella delle leggi ecclesiastiche (…). Il primo vero cambiamento si ebbe invece con il Nomocanone in 14 titoli redatto dal patriarca Fozio nell’883, in cui – mentre si affermava l’indissolubilità del matrimonio – si prevedeva anche una lista di motivazioni per il divorzio, nella forma introdotta dalla legislazione di Giustiniano. Il successivo sviluppo dell’impero bizantino rafforzò, da una parte, il ruolo della chiesa, dall’altra aprì la strada a una sovrapposizione delle due istituzioni, lo Stato e la chiesa. La nuova compilazione della legislazione civile operata dall’imperatore Basilio I, il Basilikà, rielaborò il Corpus Iuris Civilis di Giustiniano cercando invero di omettere alcuni punti proble- matici della precedente legislazione che erano in contrasto con le posizioni della chiesa. Tuttavia, nel Sinodo di Costantinopoli del 920, il Nomocanone di Fozio fu approvato come collezione ufficiale delle leggi di Bisanzio, ammettendo alcune possibilità di divorzio per le ragioni previste dalla legge. Inoltre, fino alla fine del IX secolo era ancora possibile contrarre il matrimonio civile, ma dall’anno 895, sulla base della Novella 89 dell’imperatore Leone IV, la chiesa fu proclamata l’unica istituzione legalmente competente a cele- brare i matrimoni. In questo modo, la benedizione sacerdotale divenne una parte necessaria dell’atto civile del matrimonio e la chiesa si trovò a ricoprire il ruolo di garante del matrimonio come istituzione sociale. In conseguenza di ciò, i tribunali ecclesiastici divennero gradualmente – e nel 1086 definitivamente – gli organi competenti in via esclusiva per l’esame dei casi matrimoniali: la chiesa orientale doveva così conformare il suo esercizio allo Stato e alla legge civile. Una volta che la legge civile iniziò a consentire il divorzio e i successivi nuovi matrimoni, la chiesa orientale si trovò dunque obbligata a riconoscere queste pratiche. Il primo patriarca che parve guardare il divorzio con benevolenza fu Alessio I di Costantinopoli (1025-1043). Egli infatti proibì il matrimonio con le donne ripudiate per adulterio, e minacciò di sospensione dal loro ministero i sacerdoti che osavano benedire seconde nozze con tali donne; tuttavia, ordinò che questa norma non fosse applicata a coloro che si erano separati dalla parte colpevole, consentendo invece la benedizione delle seconde nozze per quelle donne che avevano richiesto il divorzio a causa del comportamento immorale del marito. Commentando questa norma, Pietro Dacquino suggerisce che potrebbe trattarsi anche qui di “fidanzati”, perché il quarto decreto punisce severamente il sacerdote che avesse impartito la benedizione nuziale a coloro che avevano divorziato consensualmente, andando anche contro la legge civile. Difatti, tenendo conto della severità dimostrata dalle Chiese orientali nei riguardi delle seconde nozze dei vedovi, comprendiamo come anche quelle di coloro che avevano rotto il fidanzamento (considerato in Oriente già un primo matrimonio) potessero essere un problema per l’ideale di stretta monogamia coltivato a quel tempo. Tendenze più severe ponevano questi “fidanzati” sullo stesso piano dei vedovi, privandoli perciò della benedizione nuziale se si risposavano. (…)
Ragioni di divorzio: tentativi di sistematizzazione
1. Adulterio e fornicazione
Come già visto, le autorità ortodosse generalmente interpretano Mt 5,32 e 19,9 come un consenso al divorzio nel caso di adulterio. Possiamo asserire che, se esiste un punto di vista comune fra i teologi e i vescovi ortodossi, è proprio questo. Molti teologi e vescovi sostengono la posizione restrittiva secondo cui divorzio e seconde nozze sono consentiti solo in caso di adulterio. In questo caso, la chiesa ortodossa permette di contrarre un nuovo matrimonio sia alla parte innocente che a quella colpevole, ma nell’ultimo caso soltanto dopo l’esecuzione di una lunga e impegnativa penitenza. Il teologo greco-ortodosso Panagiotis Trembelas considera inammissibile il matrimonio di una donna adultera con l’uomo con il quale ha commesso adulterio. D’altra parte Angelo Altan aggiunge che un singolo atto di adulterio non costituisce un motivo sufficiente per avere il decreto di divorzio, mentre può esserlo una lunga storia di infedeltà coniugale.
1. Adulterio e fornicazione
Come già visto, le autorità ortodosse generalmente interpretano Mt 5,32 e 19,9 come un consenso al divorzio nel caso di adulterio. Possiamo asserire che, se esiste un punto di vista comune fra i teologi e i vescovi ortodossi, è proprio questo. Molti teologi e vescovi sostengono la posizione restrittiva secondo cui divorzio e seconde nozze sono consentiti solo in caso di adulterio. In questo caso, la chiesa ortodossa permette di contrarre un nuovo matrimonio sia alla parte innocente che a quella colpevole, ma nell’ultimo caso soltanto dopo l’esecuzione di una lunga e impegnativa penitenza. Il teologo greco-ortodosso Panagiotis Trembelas considera inammissibile il matrimonio di una donna adultera con l’uomo con il quale ha commesso adulterio. D’altra parte Angelo Altan aggiunge che un singolo atto di adulterio non costituisce un motivo sufficiente per avere il decreto di divorzio, mentre può esserlo una lunga storia di infedeltà coniugale.
2. Teoria della grazia rifiutata
Per John Meyendorff il matrimonio, considerato come sacramento, non impegna gli sposi soltanto nella vita terrena, ma anche nella vita eterna, e la grazia sacramentale ricevuta non è destinata a finire nemmeno con la morte. Il matrimonio è un dono consegnato alla libertà umana, pertanto la grazia deve trovare un terreno fertile, cioè deve essere accolta. Questa accettazione della grazia richiede anche lo sforzo umano, e rinunciare a tale sforzo significa rifiutare la grazia elargita. In questo senso, secondo Meyendorff, il divorzio ecclesiastico indica semplicemente il riconoscimento della chiesa che questa grazia sacramentale è stata rifiutata. Paul Evdokimov sviluppa l’idea della grazia rifiutata o non accolta giungendo alla conclusione che se l’unità degli sposi e il loro amore reciproco sono immagine della grazia sacramentale, allora – in caso tale amore cessi o diminuisca – si affievolisce anche la comunione spirituale significata e realizzata dall’unione fisica – una caro. Proseguire la coabitazione coniugale a queste condizioni assomiglierebbe più alla fornicazione che all’unità spirituale, e una “fornicazione” di questo tipo sarebbe equivalente alla fine del matrimonio.
Per John Meyendorff il matrimonio, considerato come sacramento, non impegna gli sposi soltanto nella vita terrena, ma anche nella vita eterna, e la grazia sacramentale ricevuta non è destinata a finire nemmeno con la morte. Il matrimonio è un dono consegnato alla libertà umana, pertanto la grazia deve trovare un terreno fertile, cioè deve essere accolta. Questa accettazione della grazia richiede anche lo sforzo umano, e rinunciare a tale sforzo significa rifiutare la grazia elargita. In questo senso, secondo Meyendorff, il divorzio ecclesiastico indica semplicemente il riconoscimento della chiesa che questa grazia sacramentale è stata rifiutata. Paul Evdokimov sviluppa l’idea della grazia rifiutata o non accolta giungendo alla conclusione che se l’unità degli sposi e il loro amore reciproco sono immagine della grazia sacramentale, allora – in caso tale amore cessi o diminuisca – si affievolisce anche la comunione spirituale significata e realizzata dall’unione fisica – una caro. Proseguire la coabitazione coniugale a queste condizioni assomiglierebbe più alla fornicazione che all’unità spirituale, e una “fornicazione” di questo tipo sarebbe equivalente alla fine del matrimonio.
3. La morte spirituale e morale del matrimonio
All’inizio del XX secolo, il grande canonista serbo Nikodim Milas elaborò la teoria della morte morale del matrimonio. Questa teoria, sviluppata in seguito dal teologo greco Hamicar S.Alivisatos, dice che come la morte fisica di un coniuge interrompe il legame e dà la possibilità al coniuge rimanente di contrarre seconde nozze (morte fisica del matrimonio), così è anche possibile parlare della morte spirituale di un matrimonio.
All’inizio del XX secolo, il grande canonista serbo Nikodim Milas elaborò la teoria della morte morale del matrimonio. Questa teoria, sviluppata in seguito dal teologo greco Hamicar S.Alivisatos, dice che come la morte fisica di un coniuge interrompe il legame e dà la possibilità al coniuge rimanente di contrarre seconde nozze (morte fisica del matrimonio), così è anche possibile parlare della morte spirituale di un matrimonio.
Considerazioni conclusive
Secondo Pierre L’Huillier, la chiesa ortodossa, generalmente, non decide dello scioglimento del matrimonio, eccetto i casi in cui la chiesa stessa ha anche una responsabilità civile. Per il canonista cattolico, abituato a ragionare secondo le categorie del diritto processuale matrimoniale, è spesso difficile comprendere il fatto che nella chiesa ortodossa, di per sé, non si parli mai di aspetti procedurali delle cause matrimoniali, non esistono in questo campo avvocati, procuratori, difensori del vincolo, istanze di appello. L’Huillier evidenzia inoltre che le Chiese ortodosse non hanno praticamente mai elaborato una dottrina chiara dell’indissolubilità del matrimonio, che possa trasferire i criteri del Nuovo Testamento al livello giudiziario. Questo è il fatto chiave che ci permette di capire perché le Chiese ortodosse, anche al livello delle loro autorità più alte, accettino – spesso passivamente – la realtà sociologica. Tale lassismo rivela non solo l’impropria espansione delle cause legittime di divorzio, a paragone con i criteri indicati nel Nomocanone, ma anche la totale scomparsa di differenza fra il divorzio concesso bona gratia e quello conces- so cum damno. Vediamo questo lassismo anche nell’accettazione della possibilità delle seconde nozze per una persona divorziata, in cui viene praticamente eliminata la differenza fra la parte che ha causato la rottura del matrimonio e la parte innocente; ciò crea l’impressione che un decreto di divorzio conceda automaticamente la possibilità di risposarsi. Un altro autore ortodosso, Alvian Smirensky, commentando i decreti del Sinodo di Mosca del 1918, osserva con una punta di tristezza che in questi decreti sono dedicate solo quindici righe alla questione dell’indissolubilità, mentre le sette pagine seguenti descrivono i modi con cui è possibile sciogliere il legame indissolubile.
La posizione della Chiesa cattolica
La chiesa cattolica non riconosce le procedure di scioglimento del legame coniugale e quelle connesse al divorzio per adul- terio, almeno nel modo in cui tali procedure sono effettuate da varie Chiese ortodosse, né riconosce l’applicazione del principio della oikonomia (che in questo caso è considerato contrario alla legge divina), perché queste modalità di scioglimento presuppongono l’intervento di un’autorità ecclesiastica nella rottura di un accordo matrimoniale valido. Nelle decisioni su questi temi, effettuate dalle autorità della chiesa ortodossa, sono generalmente carenti o praticamente sconosciute le distinzioni fra “dichiarazione di nullità”, “annullamento”, “dissoluzione” e “divorzio”, e spesso i motivi sottesi alle decisioni non sono indicati. Per di più, nella chiesa ortodossa c’è un’incertezza fondamentale riguardo alla serietà del processo canonico di verifica dell’eventuale validità o nullità di un matrimonio. Ciò solleva forti dubbi circa la motivazione e la legittimità di tali dichiarazioni, e circa la loro applicabilità anche nella chiesa cattolica. Dal punto di vista del diritto matrimoniale cattolico, siamo tenuti a considerare un matrimonio valido fino a prova contraria (cfr. canone 1060 CIC e canone 779 CCEO). Molte Chiese ortodosse si limitano semplicemente a ratificare le sentenze di divorzio emanate dai tribunali civili. In altre Chiese ortodosse, ad esempio in Medio Oriente, laddove le autorità ecclesiastiche hanno la competenza esclusiva in materia matrimoniale, le dichiarazioni di scioglimento del matrimonio religioso vengono rilasciate solo applicando il principio della oikonomia.
La chiesa cattolica non riconosce le procedure di scioglimento del legame coniugale e quelle connesse al divorzio per adul- terio, almeno nel modo in cui tali procedure sono effettuate da varie Chiese ortodosse, né riconosce l’applicazione del principio della oikonomia (che in questo caso è considerato contrario alla legge divina), perché queste modalità di scioglimento presuppongono l’intervento di un’autorità ecclesiastica nella rottura di un accordo matrimoniale valido. Nelle decisioni su questi temi, effettuate dalle autorità della chiesa ortodossa, sono generalmente carenti o praticamente sconosciute le distinzioni fra “dichiarazione di nullità”, “annullamento”, “dissoluzione” e “divorzio”, e spesso i motivi sottesi alle decisioni non sono indicati. Per di più, nella chiesa ortodossa c’è un’incertezza fondamentale riguardo alla serietà del processo canonico di verifica dell’eventuale validità o nullità di un matrimonio. Ciò solleva forti dubbi circa la motivazione e la legittimità di tali dichiarazioni, e circa la loro applicabilità anche nella chiesa cattolica. Dal punto di vista del diritto matrimoniale cattolico, siamo tenuti a considerare un matrimonio valido fino a prova contraria (cfr. canone 1060 CIC e canone 779 CCEO). Molte Chiese ortodosse si limitano semplicemente a ratificare le sentenze di divorzio emanate dai tribunali civili. In altre Chiese ortodosse, ad esempio in Medio Oriente, laddove le autorità ecclesiastiche hanno la competenza esclusiva in materia matrimoniale, le dichiarazioni di scioglimento del matrimonio religioso vengono rilasciate solo applicando il principio della oikonomia.
All’inizio di questo saggio ci siamo chiesti se la prassi ortodossa potesse rappresentare una via d’uscita per la chiesa cattolica di fronte all’instabilità crescente dei matrimoni sacramentali. Ci siamo chiesti se la via ortodossa potesse rappresentare un approccio pastorale accettabile per quei cattolici i quali, dopo il fallimento del matrimonio sacramentale e il successivo divorzio civile, vogliano contrarre un secondo matrimonio civile. Prima di rispondere a questa domanda, però, bisogna considerare un’altra questione: possiamo pensare di risolvere le difficoltà che i matrimoni cristiani devono affrontare nel mondo contemporaneo diminuendo le esigenze dell’indissolubilità? Se facessimo così, aiuteremmo a custodire la dignità del matrimonio oppure offriremmo un semplice placebo modellato, come nell’Antico Testamento, sulla durezza dei cuori?
Cristo ha portato il suo nuovo, rivoluzionario messaggio, un messaggio che era controcorrente per il mondo pagano. I suoi discepoli hanno annunciato la Buona Novella, senza timore di presentare obiettivi troppo alti o quasi impossibili per la cultura del tempo. Il mondo di oggi, forse, è analogamente segnato da un neo-paganesimo fatto di consumismo, comodità, egoismo, pieno di nuove crudeltà perpetrate con metodi sempre più moderni e sempre più disumanizzanti. La fede nei principi soprannaturali è ora più che mai umiliata e derisa. Tutto ciò ci porta a considerare se la “durezza di cuore” (cfr. Mt 19,8; Mc 10,5) possa costituire un argomento sufficiente a oscurare la limpidezza dell’insegna- mento evangelico sull’indissolubilità del matrimonio. La risposta ai molti dubbi e alle molte domande, alle molte tentazioni di trovare la “scorciatoia” o di “abbassare l’asticella” in quel grande salto esistenziale che è la vita matrimoniale, in tutta questa con- fusione di voci contrastanti e distraenti, risuona ancora oggi nelle parole del Signore: “Ma io vi dico […] quello che Dio ha con- giunto l’uomo non separi” (Mc 10,9), e nella considerazione finale di san Paolo: “Questo mistero è grande” (Ef 5,32).
* Arcivescovo e segretario della congregazione per le Chiese orientali
tratto da FOGLIO QUOTIDIANO (26 settembre 2014)