CON LA MORTE
DEL
CARDINALE MARTINI
E’ STATA CANONIZZATA LA
TEOLOGIA DEL DUBBIO
A forza di interpretare
la Scrittura a proprio estro, come ha insegnato il cardinale Carlo Maria
Martini e prima di lui Lutero e prima ancora Valdo e prima di loro uno stuolo
per nulla originale di eretici, troppi cattolici hanno finito per praticare al
contrario il chiarissimo monito evangelico che invita a essere candidi come
colombe e astuti come serpenti. Perché solo gente candida come serpenti e astuta
come colombe può applicarsi al tentativo di sottrarre il cardinale Martini
all’uso che il mondo ne sta facendo dopo la sua morte. Solo un’astuzia spuntata
e un candore ingrigito possono condurre un cattolico a non rendersi conto che
il mondo sta facendo dell’arcivescovo, in morte, l’uso che lui stesso aveva
scelto in vita.
Non deve proprio
stupire se il primo frutto pubblico post mortem dell’opera del cardinale è la
notizia della proposta di legge sul fine vita elaborata da Furio Colombo e
intitolata proprio “Legge Martini”. Un sorta di miracolo laico, verrebbe da
dire, che “Il fatto quotidiano” del 12 settembre 2012 presenta così: “Il testo
si compone di tre soli articoli. Primo: ogni cittadino ha il diritto di
decidere liberamente di non ‘vivere’ in stato di coscienza la propria agonia e
la propria morte. Ha diritto perciò di chiedere di essere ‘sedato’ entrando
nella fine irreversibile di ogni sofferenza e ogni angoscia, anche qualora
l'uso di narcotici possa abbreviare la continuazione della vita dell'organismo.
Secondo: la legge istituisce una ‘alleanza medico-paziente’ che stabilisce
inequivocabilmente il diritto di ogni ammalato (irreversibilmente inguaribile)
di scegliere il momento in cui ricevere una ‘sedazione’ definitiva che lo
accompagni, in perfetta incoscienza senza ritorno, alla morte dell'organismo.
Tale diritto è esercitato da chi, per legame naturale o come indicato da una
precedente dichiarazione esplicita, rappresenta la volontà dell'ammalato, nel
caso di impossibilità diretta di comunicare da parte del paziente. Terzo: le
strutture sanitarie pubbliche e private sono responsabili della sofferenza
fisica, psicologica e morale conseguente alla non applicazione della presenta
legge, a causa di carenze tecniche e o amministrative, e ne rispondono in sede
civile e penale. Si parla dunque di palliazione nella proposta di Colombo che
pone l’accento sulla volontà espressa da Martini ‘di dire ai medici che lo
assistevano, di rinunciare a qualunque proseguimento delle tecniche di
mantenimento in vita. Dunque l’espressione della richiesta, a cui i medici
hanno aderito, di essere sedato in modo da poter morire senza terrore e senza
dolore’”.
Come sempre, al dramma
è seguita la farsa delle smentite, delle controsmentite, delle interpretazioni
e delle contronterpretazioni. Ma è difficile sottrarre all’uso del mondo la
morte del cardinale, oltre che la sua vita, dopo la lettera della nipote Giulia
Facchini Martini, pubblicata sul “Corriere della Sera” del 4 settembre. Nel
testo, si legge tra l’altro: “Avevi paura, non della morte in sé, ma dell'atto
del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede. Ne avevamo parlato
insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei
soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i
tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato. Avevi
paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire
soffocato. Se tu potessi usare oggi parole umane, credo ci diresti di parlare
con il malato della sua morte, di condividere i suoi timori, di ascoltare i
suoi desideri senza paura o ipocrisia. Con la consapevolezza condivisa che il
momento si avvicinava, quando non ce l’hai fatta più, hai chiesto di essere
addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta
di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato”
Quand’anche, scorrendo
queste righe, non ci si trovasse in quella zona grigia tanto evocata e
vezzeggiata dal cardinale, non pare proprio questo l’atteggiamento che il
gregge si attende dal pastore davanti alla morte. Qui ci si trova davanti a un
sentire e a un pensare che turbano e rimandano inevitabilmente a quanto Martini
confessava nelle Conversazioni notturne a Gerusalemme durante il colloquio con
il confratello Georg Sporschill: “Le mie difficoltà hanno riguardato un grande
interrogativo: non riuscivo a capire perché Dio lascia soffrire suo Figlio
sulla croce. Perfino da vescovo, a volte, non riuscivo ad alzare lo sguardo
verso il crocifisso, perché questa domanda mi tormentava. Me la prendevo con
Dio… Soltanto in seguito un concetto teologico mi è stato di aiuto nel mio
travaglio: senza la morte non saremmo in grado di dedicarci totalmente a Dio…
Nella morte spero di riuscire a dire questo sì a Dio”.
Parlare del cardinale
Martini, del suo pensiero e della sua opera dentro la Chiesa vorrebbe dire
affrontare senza ipocrisie passi intessuti di tragedia come questo. Senza
esimersi dal pregare generosamente per la sua anima, poiché nessuno, tranne
Dio, sa dove si trovi e quale sia il suo destino. E, invece, per mesi e forse
per anni, si dovranno sorbire lenzuolate di giornali, di libri, di siti, di
radio, di tv cattoliche che spiegheranno come e qualmente il cardinale non ha
detto ciò che ora il mondo gli fa dire e non ha fatto quello che il ora il
mondo gli fa fare. Come se, a suo tempo, il cardinale si fosse mai degnato di
ritrarsi, anche solo di un passo, dal ruolo di papa alternativo che il mondo
laico, in solido con quello cattoprogressita, gli ha attribuito. Non lo ha mai
fatto e, anzi, ha sempre contribuito ad alimentare tale vulgata con il pensiero
e l’azione. La questione del fine vita è solo l’ultimo degli esempi, eclatante
come lo sono tutti gli altri. L’abolizione del celibato sacerdotale e il sacerdozio
femminile, le aperture su convivenze, sugli omosessuali e la comunione ai
divorziati risposati, la collegialità, il conciliarismo e la contestazione del
primato petrino, l’esaltazione di figure come Lutero e il fiancheggiamento dei
preti cosiddetti scomodi e quindi accolti in tutti i salotti che contano: sono
tutte scelte meditate e praticate che hanno incontrato il plauso del mondo e
ora non c’è più tempo per ritrattarle.
Eppure c’è chi spiega e
spiegherà che il cardinale non voleva dire quello che ha detto e, anzi, metterà
in guardia le avanguardie del mondo e del progressismo cattolico dal fare un
uso indebito della sua eredità. Come dire, l’ermeneutica della continuità
applicata al martinismo, una dottrina che, prima ancora che essere un contenuto,
consiste in un metodo fondato sull’esercizio del dubbio e dell’ambiguità. Pane
per qualsiasi ermeneuta deciso a trarne ciò che vuole, ma impossibile da
digerire per chiunque legga il magistero martiniano alla luce dell’ortodossia.
Uno degli esiti più eclatanti
di tale pensiero si è mostrato nella “Cattedra di non credenti”, un’intrapresa
culturale che ha contribuito gagliardamente alla devastazione dottrinale della
diocesi di Milano e poi, per contagio, del resto d’Italia e non solo. Nel 2002,
in un discorso agli studenti del Pontificio Istituto Biblico, il cardinale la
ricordava così: “(…) la ‘Cattedra dei non credenti’ (…) non è di per sé
un’iniziativa biblica, ma nasce dalla Scrittura. ‘Dice l’empio: non c’è Dio’,
dunque ascoltiamo l’empio. Cioè chiamiamo in cattedra i non credenti a
spiegarci perché non credono. Poi non facciamo con loro un dibattito
apologetico o una conferenza, cerchiamo di ascoltarci. Con la percezione che
c’è in ciascuno di noi, almeno in me, una duplice personalità: un credente e un
non credente che continuamente fa obiezioni, pone domande, problemi”.
Non può passare
inosservata l’evidente autocertificazione di schizofrenia dottrinale e
spirituale sottoscritta da Martini. Una vera e propria patologia pericolosa per
qualunque fedele, ma addirittura sciagurata per un pastore che dovrebbe
confermare nella fede il proprio gregge. Eppure è proprio questo il cuore
dell’azione pastorale e dottrinale dell’arcivescovo di Milano, il quale usò più
volte le stesse parole e gli stessi concetti per illustrarlo. Su “Il nostro
tempo” del 17 ottobre 1993, esaltava il dubbio come “quell’esercizio dello
spirito che in questi anni a Milano ha avuto il nome un po’ provocatorio di
‘Cattedra di non credenti’. (…) Ho organizzato questi incontri partendo dall’ipotesi
che c’è in ciascuno di noi una parte credente e una non credente, o almeno
resistente alla fede. (…) I due si parlano, si contrastano, si confrontano.
Ciascuno di noi dà poi la prevalenza all’uno o all’altro dei due atteggiamenti,
ma quello opposto gli rimane dentro. Il non credente sente una domanda di
certezza, il credente viene vessato dalle ombre del dubbio”.
E’ evidentissimo che,
secondo le stesse parole del cardinale, dal confronto, è proprio il credente,
“vessato dalle ombre del dubbio”, a uscire malridotto dal confronto. Perché è
proprio questo l’esito della dottrina e della pastorale martiniana: la
destrutturazione della fede. Un esito disumano in cui non esistono più certezze
e punti riferimento che ha come corrispettivo iconografico l’incomprensibile
arte moderna.
Ma, fatti salvi i dubbi
involontari che possono sorgere nell’intelletto riguardo alla verità proposta
dalla fede, poiché questa rimane oscura alla ragione, chi crede non è un povero
cieco che brancola inutilmente nel caos. Il credente ha il preciso dovere di
rigettare il dubbio, poiché la fede non poggia sull’evidenza della ragione, ma
sulla veracità di Dio. Nella Summa Teologica (II II, q.4, a. 8, ad 2),
San Tommaso spiega che “A parità di condizioni vedere è più certo che ascoltare.
Quando però colui dal quale si ascolta supera di molto la perfezione di chi
vede, allora udire è più certo che vedere. Come un uomo di cultura modesta è
più certo di ciò che ascolta da una persona dottissima che di ciò che a lui può
apparire secondo la sua ragione. E un uomo è molto più certo di ciò che ascolta
da Dio, il quale non può ingannarsi, che di quanto egli vede con la sua propria
ragione ingannevole”.
Abbandonato questo
criterio, il metodo della “Cattedra dei non credenti” ha infranto anche un
altro chiarissimo ammonimento deposto dalla sapienza e dalla fede di San
Tommaso nella Summa, il cui articolo 7 della questione 11 (II II) porta
l’inequivocabile titolo “Se si debba disputare pubblicamente con gli infedeli”.
La risposta del santo dottore inizia così: “Nelle dispute sulla fede si devono
considerare due cose: una a proposito di chi affronta la disputa, l’altra a
proposito degli ascoltatori. A proposito di chi disputa dobbiamo considerare
l’intenzione. Se infatti uno disputasse perché dubita della fede, senza avere
come presupposto la certezza della sua verità, ma volendola raggiungere con
degli argomenti, peccherebbe indubbiamente, in quanto incredulo e dubbioso
sulle cose di fede. Se invece disputa sulla fede per confutare, o per pio esercizio,
fa una cosa lodevole”.
Come al solito,
implacabile nella sua chiarezza e nella sua lucidità, Tommaso mostra che il
contenuto e il metodo della “Cattedra dei non credenti” cadono sotto il caso di
chi disputa “perché dubita della fede”. Con l’aggravante tutta moderna della
volontà di rimanere nel dubbio.
Poi, l’articolo della Summa
procede parlando del pubblico: “E a proposito degli ascoltatori si deve vedere
se coloro che ascoltano la disputa sono istruiti e fermi nelle cose della fede,
oppure sono delle persona semplici e titubanti. Infatti nel disputare sulle
cose di fede dinanzi a persone istruite e ferme nel credere non c’è alcun
pericolo. Se invece si tratta di gente semplice bisogna distinguere. Infatti
questi ascoltatori o sono sollecitati e combattuti dagli infedeli, per esempio
dagli Ebrei, dagli eretici o dai pagani che tentano di corromperne la fede,
oppure sono tranquilli come avviene nelle regioni in cui non ci sono gli
infedeli. Nel primo caso è necessario disputare pubblicamente sulle cose di
fede: purché vi siano delle persone capaci e preparate, che possano confutare
gli errori. (…) Invece nel secondo caso è pericoloso disputare pubblicamente
sulla fede dinanzi a persone semplici, la cui fede è più ferma per il fatto che
non hanno mai ascoltato qualcosa di diverso da ciò che credono. Perciò non
conviene che essi ascoltino i discorsi degli infedeli che discutono contro la
fede”.
Anche su questo
versante, pare chiarissimo come l’iniziativa del cardinale contravvenga
all’insegnamento tomista e sia andata a turbare la fede di chi non avrebbe
proprio avuto bisogno di essere “vessato dal dubbio”. Senza contare che non uno
degli interlocutori non credenti portati in cattedra da Martini abbia dato
mostra di aprirsi alla fede cattolica. Non uno dei grandi intellettuali
agnostici, atei, eretici o di altre religioni che lo hanno osannato in vita e
in morte l’hanno trovato così attraente da arrendersi a Cristo.
Del resto, il cardinale
non lo chiedeva. Impugnando il dubbio come un pastorale, ha sempre preferito
viaggiare sul filo dell’ambiguità pensando bene di sospingere le pecore oltre
gli steccati dell’ovile e soprattutto, di mantenervi fuori quelle che già erano
uscite. A volte in manifesto contrasto con la dottrina cattolica, altre
mantenendosi un passo indietro e alimentando l’eresia altrui, basta che
circolasse.
Tra i casi recenti più
celebri, va ricordato quello del libro di Vito Mancuso, L’anima e il suo
destino. Un’operina che demolisce il concetto di peccato originale, la
resurrezione di Gesù, il ritorno del Salvatore nella gloria, l’eternità
dell’inferno, Dio come fonte della salvezza, le Sacre Scritture come parola di
Dio, l’intervento divino nella storia e definisce il purgatorio una “salutare
invenzione”. Là dove le tesi di Mancuso non coincidono con quanto detto da
Nostro Signore e da San Paolo è presto fatto: sono Nostro Signore e San Paolo a
sbagliarsi. Quanto alla morale sessuale, il professore ha sistemato tutto
mettendo sotto il compressore la dottrina della Humanae Vitae sulla
contraccezione: “Occorre guardare in faccia la realtà per quello che è, non per
quello che si vorrebbe che fosse, e la realtà è che i rapporti sessuali sono
praticati largamente al di fuori del matrimonio e a partire da giovanissima
età”.
Su “Civiltà cattolica”,
padre Corrado Marucci, dopo aver stroncato il libello mancusiano, ha concluso:
“Se per teologia si intende la riflessione dell’intelletto umano illuminato
dalla fede sulla Sacra Scrittura e sulle definizioni della Chiesa, allora il
nostro giudizio complessivo su questa opera non può che essere negativo.
L’assenza quasi totale di una teologia biblica e della recente letteratura
teologica non italiana, oltre all’assunzione più o meno esplicita di numerose
premesse filosoficamente erronee o perlomeno fantasiose, conduce l’Autore a
negare o perlomeno svuotare di significato circa una dozzina di dogmi della
Chiesa cattolica. A fronte di una relativa povertà di dati autenticamente
teologici, la tecnica di accumulare citazioni da tutto lo scibile umano, oltre
al rischio di distorcerne il senso reale ai propri fini poiché esse fanno parte
di assetti logici a volte del tutto diversi, non corrisponde affatto alla
metodologia teologica tradizionale”.
Eppure, nella
prefazione, l’ex arcivescovo di Milano raccomanda vivamente il libro, anche se
vi ravvisa concetti “che non sempre collimano con l'insegnamento tradizionale e
talvolta con quello ufficiale della Chiesa”. Un colpo di genio, con quell’apparente
innocente “non sempre”, il cardinale ha trovato il pertugio per il genere di
operazione in cui è sempre stato maestro: smarcarsi da un’eventuale
ricognizione della Congregazione per la Dottrina della fede e, nel contempo,
aprire grazie ad altri un’autostrada diretta verso l’eterodossia conclamata.
Come al solito, grazie al dubbio. “Sarà difficile parlare di questi argomenti
senza tenere conto di quanto tu hai detto con penetrazione coraggiosa” dice il
cardinale al vecchio pupillo. “Anche quelli che ritengono di avere punti di
riferimento saldissimi possono leggere le tue pagine con frutto, perché almeno
saranno indotti o a mettere in discussione le loro certezze o saranno portati
ad approfondirle, a chiarirle, a confermarle”.
In questo modo, nel
corso dei decenni, Martini ha prodotto un instancabile lavorìo che ne ha fatto
l’icona delle icone del progressismo cattolico, il cardinalissimo che a Milano
ha impietosamente oscurato il cardinale successore e il successore del
successore per chissà quanti mandati. Ne ha fatto il Grande Antagonista che ha
sempre colto l’occasione giusta per esercitare il suo magistero alternativo:
vuoi l’intervista, vuoi l’opera di esegesi, vuoi la raccolta di riflessioni,
vuoi il dialogo con un spalla che le spari grosse e gli permetta di andare
oltre fingendo di ritrarsi.
Sono esemplari, da
questo punto di vista, le 96 paginette di Siamo tutti sulla stessa barca,
firmate con don Luigi Verzé e piene della solita roba: la morale sessuale della
Chiesa da buttare, i divorziati risposati da ammettere alla comunione, il
celibato dei sacerdoti da mandare a ramengo, l’ottusità dell’etica cattolica da
scrollarsi di dosso, e poi la sinodalità, l’apertura al mondo, il popolo di Dio
che elegge direttamente i vescovi come se fossero dei borgomastri. Tutto
spruzzato di snobistico orrore per “le fiumane di gente” che “quando arriva il
Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate”.
Il fremito
clerical-chic del dialogo con l’antico nemico don Verzé è giusto una carezza
consegnata dal cardinale ai suoi seguaci, un discorso della Luna per chi
avrebbe voluto vederlo Papa al posto di Benedetto XVI.
Il cardinale, con uno
sparring partner come il fondatore del San Raffaele, ha buon gioco a mostrare
con studiata ritrosia il suo disegno di una nuova Chiesa. A un don Verzé sicuro
che quando Cristo tornerà sulla terra troverà ancora la fede perché ci sarà
ancora il San Raffaele, risponde evocando le zone grigie dell’etica su cui ama
tanto avventurarsi senza portare un solo contributo per discernere il bianco
dal nero. A un don Verzé che parla di morale cristiana incongruente col mondo
confida con rammarico che, in effetti, “oggi ci sono non poche prescrizioni e
norme che non sempre vengono capite dal semplice fedele”. A un don Verzé
ossessionato da una Chiesa che non rincorre abbastanza velocemente la scienza
consegna i suoi “non so”, “non voglio giudicare” vuoti di dottrina e di
speranza.
Il cardinale sta
un’ottava sotto il prete manager, ma tra le righe il colpo d’ala c’è: per
rimettere un po’ d’ordine in questa barca, caro il mio don Verzé, “non basta un
semplice sacerdote o un vescovo. Bisogna che tutta la Chiesa si metta a
riflettere su questi casi”.
Per farla corta, urge
un Concilio Vaticano III. Chi altri, se non il Cardinale Antagonista, avrebbe
potuto evocarlo senza cadere nel ridicolo? Anzi, potendo vantare di averlo
addirittura sognato fin dal Sinodo per l’Europa del 1999. Ma per arrivarci, non
basta enunciare una nuova dottrina, serve un metodo per farla passare
nell’opinione pubblica. E il metodo consta nella ripetuta pubblicazione di
opere e operine, di cui quella con don Verzé è solo un esemplare fra i tanti.
Nella strategia
martiniana, opere e operine progressivo-moderniste sono stati altrettanti
schemi preparatori sul genere di quelli, che fino al Vaticano II compreso,
redigeva la curia romana e su cui i Padri conciliari erano tenuti a discutere.
Il fatto che, nel corso di questi decenni, siano stati diffusi a mezzo stampa
invece che consegnati ai vescovi tramite Corriere della sera dipende dalla
natura del Vaticano III: quella di Concilio mediatico, celebrato
quotidianamente sui giornali, in tv, sul web, dove il dialogo paritario tra
Chiesa e mondo trova la sua luciferina manifestazione in una Chiesa che si
prostra davanti mondo.
Virtualmente in corso
da tempo, al Vaticano III mancava una formale cerimonia d’apertura, che ora ha
una sua collocazione storica precisa nella morte del cardinale Martini e nella
istantanea canonizzazione celebrata all’unisono dal mondo laico, dal mondo ecclesiale
progressista e dalla gerarchia a ogni livello. Salvo lodevoli voci isolate che
non sono neanche state udite, si è assistito alla edificazione di un vero e
proprio mito che ha ridato forza a un neomodernismo saldamente al potere ma in
deficit di idee e di prospettive.
L’esito inevitabile
dell’inedita unanimità degli elogi al capo riconosciuto della chiesa
antagonista ha formalmente aperto il Vaticano III rendendo grottescamente
inutili gli sforzi di trovare la migliore ermeneutica del Vaticano II. Sarebbe
bastato, non si dice una critica aperta o una chiara presa di distanza, ma
almeno un silenzio per incrinare il mito nascente e renderlo inoperante. Invece
no. Persino il messaggio firmato da papa Benedetto XVI parlava di “Pastore
generoso e fedele della Chiesa”, “uomo di Dio, che non solo ha studiato la
Sacra Scrittura, ma l'ha amata intensamente, ne ha fatto la luce della sua
vita, perché tutto fosse 'ad maiorem Dei gloriam', per la maggior gloria di
Dio”. E poi ancora pastore “capace di insegnare ai credenti e a coloro che sono
alla ricerca della verità che l’unica Parola degna di essere ascoltata, accolta
e seguita è quella di Dio, perché indica a tutti il cammino della verità e
dell’amore”.
Oppure, si potrebbe
citare l’intera omelia del cardinale Scola, attuale arcivescovo di Milano che,
secondo la vulgata diffusa al suo arrivo, avrebbe dovuto demartinizzare la
diocesi ambrosiana per conto di Benedetto XVI. O il mandato non è mai stato
conferito, o è evaporato trasformandosi addirittura nel suo contrario:
“Carissimi, siamo qui convocati dalla figura imponente di questo uomo di
Chiesa, per esprimergli la nostra commossa gratitudine. In questi giorni una
lunga fila di credenti e non credenti si è resa a lui presente. Caro Padre, noi
ora, con i molti che ci seguono attraverso i mezzi di comunicazione, ti
facciamo corona. (…) Non siamo qui per il tuo passato, ma per il tuo presente e
per il nostro futuro. (…) Il Cardinal Martini non ci ha lasciato un testamento
spirituale, nel senso esplicito della parola. La sua eredità è tutta nella sua
vita e nel suo magistero e noi dovremo continuare ad attingervi a lungo”.
Da qui in giù, si è
assistito a una valanga di elogi della figura, del pensiero e del magistero
martiniano che ha attraversato gli episcopati, le diocesi e i consigli
pastorali. E ha investito persino quei movimenti che per decenni hanno fatto la
guerra alla curia milanese e ora sostengono che guerra non vi fu, forse qualche
malinteso e, se malinteso vi è stato, non fu certo per colpa del cardinale.
Neanche a papa Giovanni Paolo II è stato tributato un osanna così unanime.
Potenza della mitologia
massmediatica, che ammette voci difformi solo se scorrono a lato, fuori quadro,
là dove pur risuonando non esistono, nel luogo dove non vengono udite perché
non hanno dignità per essere decifrate, nell’unico inferno concepito dalla
modernità e da quel cattolicesimo che le si è fatto connaturale: la
segregazione dal mondo.
E adesso si assiste al
povero spettacolo di coloro che, dopo aver anche solo vagamente intuito quali
sono i disegni del mondo e in qual modo il mondo intende ghermire coloro che
gli si danno in pasto, tentano di spiegare che il cardinale non voleva dire quel
che gli fanno dire, non voleva pensare quel che gli fanno pensare, non voleva
fare quel che gli fanno fare. Ma inutilmente, perché se esiste una cifra che ha
caratterizzato il pensiero e l’operato di Martini sta proprio nel non essersi
mai sottratto all’abbraccio con il mondo. Il quale, dopo aver tributato gli
onori, passa sempre all’incasso degli oneri.
Adesso, c’è chi si
stupisce che si osi presentare una proposta di legge palesemente laica sul fine
vita intestandola al cardinale. Ma è proprio questo il modo di operare del
mondo: creare miti per il proprio uso e consumo ai quali è impossibile opporre
una resistenza razionale in quanto operano su livelli diversi, nei cieli in cui
la logica e la cronaca non hanno cittadinanza.
E quale logica e quale
cronaca, oltretutto, si tenta di opporre all’uso che il mondo fa del cardinale
e della sua memoria. Un timido balbettare che, dopo aver gettato a mare il
principio di non contraddizione e l’ossequio all’ortodossia, può solo venire
travolto dalla dialettica infernale messa in campo dalla modernità. Una povera
ricostruzione di fatti costruita sugli omissis e su improbabili ermeneutiche,
in cui si tenta surrealmente di mostrare come il cardinale fosse altro. Uno
“che lo conosceva bene” è arrivato fino a sostenere che le deviazioni di
Martini non sono frutto di una cattiva teologia, ma di una cattiva sociologia.
Davvero poca cosa che,
ancora una volta, mostra come sia tragicamente vero il detto evangelico secondo
cui i figli di questo mondo sono più scaltri dei figli della luce. Appena morto
il cardinale, mentre in casa cattolica se ne organizzava la canonizzazione
voluta dal mondo accompagnandola a un’inerme vulgata ortodossa, in televisione,
Gad Lerner, parlando di musica e di eterodossia, spiegava che “l’interpretazione
eretica degli spartiti di Bach sarebbe piaciuta tanto a Martini”. Una semplice
battuta messa lì a fare da testo implicito in un discorso tessuto a elogio
dell’eresia privo di vero contraddittorio. Questo, purtroppo, è sapiente uso
dei mezzi di comunicazione e della mitologia di cui si alimentano. Con una sola
frase, detta nel luogo e nel momento giusto, si seppellisce qualsiasi pensiero
alternativo.
Per vanificare
l’erezione del mito martinista sarebbe stato necessario un gesto difforme da
parte della gerarchia, la carità nei confronti di ogni peccatore associata
all’affermazione della verità là dove venga violata. Ma non si è visto. Al
mondo è stato offerto lo spettacolo mediatico di una Chiesa associata al mondo
nella canonizzazione del principe degli antagonisti: proprio l’unica operazione
che il mondo, da solo, non avrebbe potuto fare.