giovedì 18 febbraio 2016

Il silenzio nella liturgia


 


Per dire sì al Signore

Nel seguente articolo, che riprendiamo da L’Osservatore Romano del 30 gennaio scorso, il cardinal Robert Sarah, prefetto della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti affronta il senso del silenzio nella liturgia romana. Il suo discorso si articola intorno a quattro assi portanti: il silenzio come valore ascetico cristiano, il silenzio come condizione della preghiera contemplativa, il silenzio previsto dalle norme liturgiche, l’importanza del silenzio per la qualità della liturgia.
Molti fedeli si lamentano giustamente per l’assenza di silenzio in alcune forme di celebrazione della nostra liturgia.

È quindi importante ricordare il significato del silenzio come valore ascetico cristiano e come condizione necessaria per una preghiera profonda e contemplativa, senza dimenticare che nella celebrazione della santa Eucaristia sono ufficialmente previsti tempi di silenzio, al fine di mettere in evidenza la sua importanza per un rinnovamento liturgico autentico.


In senso negativo, il silenzio è l’assenza di rumore. Il silenzio virtuoso — o meglio mistico — deve essere ovviamente distinto dal silenzio riprovevole, dal rifiuto di rivolgere la parola, dal silenzio di omissione per codardia, egoismo o durezza di cuore. Beninteso, il silenzio esteriore è un esercizio ascetico di padronanza nell’uso della parola. L’ascesi è un mezzo indispensabile che ci aiuta a togliere dalla nostra esistenza tutto ciò che l’appesantisce, vale a dire ciò che ostacola la nostra vita spirituale o interiore e che dunque costituisce un ostacolo per la preghiera. Sì, è proprio nella preghiera che Dio ci comunica la sua vita, ossia manifesta la sua presenza nella nostra anima irrigandola con i flutti del suo amore trinitario, il Padre attraverso il Figlio nello Spirito santo. E la preghiera è essenzialmente silenzio.

I libri sapienziali dell’Antico Testamento traboccano di esortazioni volte a evitare i peccati della lingua (soprattutto la maldicenza e la calunnia).
I libri profetici, da parte loro, evocano il silenzio come espressione del timore reverenziale verso Dio; si tratta allora di una preparazione alla teofania di Dio, vale a dire alla rivelazione della sua presenza nel nostro mondo. Il Nuovo Testamento non è da meno. Di fatto contiene la lettera di Giacomo che è ancora indubbiamente il testo chiave riguardo al controllo della lingua (cfr. Giacomo 3, 1-10). Gesù stesso ci ha messo in guardia contro le parole malvagie, che sono l’espressione di un cuore depravato (cfr. Matteo 15, 19) e anche contro le parole oziose, di cui dovremo rendere conto (cfr. Matteo 12, 36).

In realtà, il vero e buon silenzio appartiene sempre a chi vuole lasciare il proprio posto agli altri, e soprattutto al totalmente altro, a Dio.
Il rumore esteriore invece caratterizza l’individuo che vuole occupare un posto troppo importante, che vuole pavoneggiarsi o mettersi in mostra, o che vuole colmare il suo vuoto interiore.
Nel vangelo si dice che il Salvatore stesso pregava nel silenzio, soprattutto di notte (cfr. Luca 6, 12), o si ritirava in luoghi deserti (cfr. Luca 5, 16; Marco 1, 35). Il silenzio è tipico della meditazione della Parola di Dio; lo si ritrova soprattutto nell’atteggiamento di Maria dinanzi al mistero di suo Figlio (cfr. Luca 2, 19-51).
Il silenzio è soprattutto l’atteggiamento positivo di chi si prepara ad accogliere Dio attraverso l’ascolto.

Sì, Dio agisce nel silenzio. Da qui l’importante osservazione di san Giovanni della Croce: «Il Padre dice una sola Parola: è il suo Verbo, il Figlio suo. La pronunzia in un eterno silenzio ed è solo nel silenzio che l’anima può intenderla» (Massime, 147). Bisogna quindi fare silenzio: e si tratta di una attività, non di una oziosità. Se il nostro “cellulare interiore “ risulta sempre occupato, perché stiamo “conversando” con altre creature, come può il Creatore avere accesso a noi, come può “chiamarci”?
Dobbiamo dunque purificare la nostra intelligenza dalle sue curiosità, la nostra volontà dai suoi progetti, per aprirci completamente alle grazie di luce e di forza che Dio vuole donarci in abbondanza: «Padre non sia fatta la mia, ma la tua volontà». “L’indifferenza” ignaziana è dunque anch’essa una forma di silenzio.

La preghiera è una conversazione, un dialogo con Dio uno e trino: se, in certi momenti, ci si rivolge a Dio, in altri si fa silenzio per ascoltarlo.
Non sorprende quindi che si debba considerare il silenzio come una componente importante della liturgia.
Certo, i riti orientali — che non sono di competenza della mia Congregazione — non prevedono tempi di silenzio durante la divina liturgia.


In Occidente, invece, in tutti i riti (romano, romano-lionese, certosino, domenicano, ambrosiano, e così via) la preghiera silenziosa del prete non viene sempre affiancata dai canti del coro o dei fedeli. La messa latina quindi include da sempre tempi di assoluto silenzio. Il concilio Vaticano II ha mantenuto un tempo di silenzio durante il sacrificio eucaristico. Così la costituzione sulla liturgia Sacrosanctum concilium, al numero 30 ha decretato che «per promuovere la partecipazione attiva si osservi anche, a tempo debito, un sacro silenzio».

L’Ordinamento generale del messale romano di Paolo VI, ripubblicato nel 2002 da Giovanni Paolo II, ha precisato i numerosi momenti della messa in cui bisogna osservare il silenzio: «La sua natura dipende dal momento in cui ha luogo nelle singole celebrazioni. Così, durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, il silenzio aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica. Anche prima della stessa celebrazione è bene osservare il silenzio in chiesa, in sagrestia e nel luogo dove si assumono i paramenti e nei locali annessi, perché tutti possano prepararsi devotamente e nei giusti modi alla sacra celebrazione» (n. 45).

Il silenzio dunque non è affatto assente dalla forma ordinaria del rito romano, quantomeno se si seguono le sue prescrizioni e ci si ispira alle sue raccomandazioni. Inoltre, al di fuori dell’omelia, occorre bandire qualsiasi discorso o presentazione di persone durante la celebrazione della santa messa. Di fatto bisogna evitare di trasformare la chiesa, che è la casa di Dio destinata all’adorazione, in una sala da spettacolo in cui si va ad applaudire attori più o meno bravi in base alla loro capacità più o meno grande di comunicare, secondo un’espressione che si sente spesso nei media.

Bisogna sforzarsi di capire le motivazioni di questa disciplina liturgica sul silenzio e impregnarsene. Alcuni autori particolarmente qualificati possono aiutarci in questo ambito e riuscire a convincerci della necessità del silenzio nella liturgia. In primo luogo monsignor Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, che esprime il principio generale in questi termini: una liturgia «ben celebrata, con il linguaggio che le è proprio, in diverse sue parti, deve prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare con straordinaria profondità, mantiene ogni espressione vocale nel giusto clima del raccoglimento. Il silenzio richiesto, pertanto, non è da considerarsi alla stregua di una pausa tra un momento celebrativo e il successivo. È da considerarsi piuttosto come un vero e proprio momento rituale, complementare alla parola, alla preghiera vocale, al canto, al gesto».
Il cardinale Joseph Ratzinger, nella sua celebre opera Lo spirito della liturgia, osservava già che «il grande mistero che supera ogni parola c’invita al silenzio. E il silenzio, è evidente, appartiene anche alla liturgia. Occorre che questo silenzio sia pieno, che non sia semplicemente assenza di discorso o di azione. Ciò che ci aspettiamo dalla liturgia è che ci offra questo silenzio sostanziale, positivo, in cui possiamo ritrovare noi stessi. Un silenzio che non è una pausa in cui mille pensieri e desideri ci assalgono, ma un raccoglimento che ci porta pace interiore, che ci lascia respirare e scoprire l’essenziale».
Si tratta dunque di un silenzio in cui guardiamo semplicemente Dio, in cui lasciamo che Dio ci guardi e ci avvolga nel mistero della sua maestà e del suo amore.

Sempre il cardinale Ratzinger menzionava alcuni momenti di silenzio particolari. Ecco un esempio: «Anche il momento dell’offertorio si può svolgere in silenzio. Questa pratica in effetti si confà alla preparazione dei doni e non può che essere feconda, purché la preparazione sia concepita non solo come un’azione esteriore, necessaria allo svolgimento della liturgia, ma anche come un percorso essenzialmente interiore; si tratta di unirci al sacrificio che Gesù Cristo offre al Padre» (ivi). Vanno biasimate in tal senso le processioni di offerte, lunghe e rumorose, che includono danze interminabili, in alcuni Paesi africani. Si ha l’impressione di assistere a esibizioni folcloristiche, che snaturano il sacrificio cruento di Cristo sulla croce e ci allontanano dal mistero eucaristico.

Occorre pertanto insistere sul silenzio dei laici durante la preghiera eucaristica, come precisa monsignor Guido Marini: «Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nell’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita».

Card. Robert Sarah


L’Osservatore Romano, 30 gennaio 2016