Parla la scrittrice Cristina Siccardi
di Giuliano Guzzo
Far rivivere sulle pagine di un libro personaggi del passato richiede pazienti lavori d’archivio, ricerche e talento. Tutte qualità che alla torinese Cristina Siccardi, classe 1966, non mancano affatto; così, dopo essersi occupata delle donne di casa Savoia e di Paolo VI, si è imbattuta, attratta dal campo religioso, nel ritratto del Cardinale John Henry Newman (“Nello specchio del Cardinale John Henry Newman”, Fede & Cultura, pp. 205) , indubbiamente una delle figure più affascinanti della storia della Chiesa. Basti dire che, nel corso della sua vita, da posizioni anglicane, che lo convinsero che il Papa fosse nientemeno che l'Anticristo – tesi che ribadì pure in pubblico - non solo si convertì al cattolicesimo, ma fondò il primo Oratorio di San Filippo Neri in Inghilterra, fu per quattro anni Rettore dell'Università Cattolica di Dublino per poi, dulcis in fundo, esser fatto Cardinale da Papa Leone XIII, che gli riconobbe "genio e dottrina". Una vita straordinaria, insomma. Che si interruppe serenamente l’11 Agosto 1890, quando il Cardinale, ormai ottantanovenne e consapevole, condotta la buona battaglia, di esser giunto alla fine della sua corsa, si spense. Sulla sua tomba, a memoria della sua incredibile avventura spirituale, è scolpito un epitaffio da lui stesso voluto: « Ex umbris et imaginibus in veritatem » ,«Dall'ombra e dai simboli alla verità». Il giorno successivo alla sua morte, il londinese Times pubblicò un elogio funebre che si concludeva con una piccola profezia:”il santo che è in sui sopravvivrà”.Ci ha lasciato un’Opera omnia imponente, un epistolario di oltre diecimila lettere e, soprattutto, la testimonianza di chi ha vissuto nella convinzione che sia la santità «il grande fine». Così, dopo averlo reso venerabile nel gennaio del ’91, la Chiesa si prepara, il prossimo 19 settembre, a beatificarlo. Non c’era davvero momento migliore, dunque, per incontrare l’autrice di una biografia, peraltro fresca di stampa e redatta sulla base di una robusta bibliografia, del celebre Cardinale.
Dottoressa Siccardi, che cosa l’ha spinta ad accostarsi alla figura del convertito e “dottore” della Chiesa, il Cardinale John Henry Newman? Com’è nata la sua curiosità verso questo straordinario cristiano?
Da sempre ho visto nel grande convertito inglese una delle immagini più plastiche della irrinunciabilità della Fede e dei dogmi cattolici. Quando ho notato che, in prossimità della beatificazione, stava uscendo un florilegio di biografie che, invece, avevano il preciso scopo di descriverlo, nella linea Tyrrell-Buonaiuti, come un antesignano del modernismo e del relativismo, ho sentito il dovere etico di cercare di ribadire la verità storica, poiché questa stessa beatificazione è un segnale forte di riaffermazione, da parte della Chiesa, del suo monopolio della Verità.
Newman, a ben vedere, fu un caso di “pluri-convertito”: da piccolo era, come lui stesso ebbe a definirsi, “molto superstizioso”, poi divenne calvinista, anglicano e infine cattolico. Come si spiega questa continua metamorfosi?
Questo cammino spirituale è, potremmo dire, la logica conseguenza della ricerca di Dio e della Verità, ricerca che fu, per tutta la sua vita, l’essenza della sua spiritualità. Newman ebbe sempre chiarissimo il principio cattolico che la Verità non può contraddire la ragione e che, quindi, la vera Fede può essere spiegata e, soprattutto, capita. Si pensi, a questo riguardo alla splendida lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona. Newman fu educato dalla madre nel credo calvinista e la superstizione lo accompagnò in questa Fede, almeno fino a quando, soprattutto per merito dell’incontro con il pastore Walter Mayers, purificò l’etica evangelica, in quanto ad essa non contraria: il Calvinismo elimina dalla religione l’aspetto razionale a favore di un’eticizzazione neofarisaica del Credo: il ripetere delle azioni per il fatto che sono comandate, indipendentemente dalla loro razionalità aiuta ad essere schiavi della superstizione. Non appena il futuro Cardinale iniziò a sottoporre a critica razionale la sua Fede, critica razionale cui sottoporrà tutta la vita ogni suo credo, si rese pressoché immediatamente conto della insostenibilità della dottrina del riformatore ginevrino. Ecco che la sua sete di razionalità lo portò alla Chiesa alta d’Inghilterra, vale a dire all’adesione a tutti i dogmi cattolici, sia pure in un contesto scismatico ed in una cornice di sentimenti ostili a Roma ed al Papa. Ancora una volta, però, è la sottoposizione ad analisi razionale dell’Anglicanesimo che lo conduce alla pienezza della verità cattolica. La razionalità gli impone il principio dell’immutabilità della Fede: se Dio ha rivelato la religione, essa è eternamente vera, come eternamente vero è Dio. Ogni evoluzione, mutamento o nuova interpretazione della dottrina è, dunque, dimostrazione di falsità della medesima. In base a questo principio Newman inizia a studiare i Padri della Chiesa, sicuro di ritrovare in loro la stessa Fede e validi motivi per permanere nella sua ostilità antiromana. Ma i Padri della Chiesa, come tutta la storia della Chiesa, testimoniano che solo la cattolicità romana, con tutte le sue pretese, primato petrino incluso, è rimasta immutata dalle origini ad oggi. Diviene, pertanto, esigenza etica imprescindibile l’adesione alla Sposa di Cristo. Quando Newman afferma che la sua spiritualità non è mai mutata, nonostante le conversioni, intende dire che da sempre lo guidò unicamente la sete di Verità e che tale sete si è placata solo con l’adesione alla vera Fede.
Di tutti i numerosi personaggi incontrati nella vita e negli studi, quale fu, secondo lei, la figura che esercitò maggior influenza su Newman? il compagno di studi John William Bowden? Il confidente Ambrose St. John, il grande amico Hurrell Froude oppure Papa Gregorio XVI?
Newman fu sempre profondamente grato alle persone e ai tanti amici che conobbe e frequentò, perché da ciascuno di loro seppe trarre insegnamenti ed ammaestramenti. Tuttavia nessuno ebbe su di lui un’influenza totalizzante: rifuggì sempre l’eccessiva adesione all’altrui pensiero, come una vera e propria idolatria. Ecco che anche gli influssi che altri esercitarono su di lui divennero, nella sua mente e nella sua anima, pensieri e sentimenti assolutamente suoi, di cui è riconoscibile l’origine, ma è ancor più evidente la trasformazione e l’inserimento in un sistema di pensiero ed in una spiritualità armonici. Tutto ciò premesso possiamo ritenere che ci siano state delle persone da cui Newman trasse di più, sia dal punto di vista qualitativo che quantitativo. Il pastore evangelico della Chiesa d’Inghilterra Walter Mayers, ad esempio, insegnò al giovane Newman a coltivare la serietà religiosa, senza indulgere a facili concessioni al mondo: fu il passaggio da un Calvinismo superstizioso ad una interiorizzazione, sia pur non ancora razionale, dell’etica evangelica. Inoltre il ventunenne Newman imparò dal professor Richard Whately di Oxford ad utilizzare l’autonomia di pensiero. Confesserà nell’ Apologia pro vita sua: «Nel 1822, quando ero ancora timido e impacciato, egli mi prese per mano e si assunse nei miei riguardi la parte del maestro gentile e incoraggiante. Mi aprì, per così dire, la mente, mi insegnò a pensare, ad usare la ragione […] mi aveva insegnato a vedere con i miei occhi e a camminare con le mie gambe. Non che non avessi ancora da imparare molte cose da altre persone, ma queste le influenzai anch’io quanto loro influenzarono me, e fu una cooperazione piuttosto che un semplice incontro». Stima e profonda amicizia stabilì con Hurrell Froude, il quale gli diede la spinta decisiva ad innescare quel processo razionale che lo condurrà ad abbracciare il Cattolicesimo. Fu il tirare le estreme conseguenze dall’Anglicanesimo rigido del Tract 90: dalla liberazione dalle scorie evangeliche della Chiesa alta d’Inghilterra non poteva che conseguire la sua confluenza nel Cattolicesimo, alveo naturale per tutti coloro che hanno un Cristianesimo razionale. Delle altre persone citate nella sua cortese domanda nessuna ebbe particolare influenza sul pensiero e la spiritualità di Newman. Un cenno merita la concordanza antiliberale e antimodernista di Newman con Gregorio XVI (si pensi all’enciclica Mirari vos ed al Biglietto Speech del Cardinale inglese); ma fu una concordanza cui l’oratoriano giunse autonomamente.
In una lettera del 1830 il futuro Cardinale confessò il suo desiderio “di non fare mai carriera nella Chiesa”, ma l’Onnipotente, almeno su questo, non lo accontentò. Ed oggi è pure Beato. Ma come seppe fronteggiare, lui che sin da ragazzo era estremamente riservato e talora pure irriso per questo, l’impegno della carriera ecclesiastica?
Newman non svolse nessun ruolo nella gerarchia ecclesiastica, fatto salvo, ovviamente, il suo impegno sacerdotale e l’organizzazione del primo oratorio inglese. Fu creato Cardinale, che lo ricordiamo, non è una funzione ed un grado all’interno della gerarchia, ma un titolo ed un riconoscimento, tanto è vero che prima della riforma di Giovanni XXIII per divenirlo non era necessario essere nemmeno sacerdoti e tantomeno vescovi: e Newman non fu Vescovo.
Impressiona molto leggere di come, nonostante l’isolamento anche universitario che gli procurò la sua conversione al Cattolicesimo, Newman non sia mai indietreggiato di un millimetro dalle sue posizioni. Anzi, attaccò frontalmente l’Anglicanesimo, credo che definì, con parole assai pesanti, “infelice e penoso”. Non andò meglio al Protestantesimo, che definì “nel migliore dei casi […] una bella statua di cera”. Questo spirito da apologeta maturò in lui tardivamente oppure gli apparteneva già prima?
L’assoluta e totale intolleranza per qualunque dottrina si distanzi, anche minimamente, dalla Verità, fu sempre la faccia militante ed apologetica dell’amore per la Verità di Newman, in ogni fase della sua vita. Parole di fuoco ebbe, da anglicano, contro il Protestantesimo, tanto da sognare una Chiesa d’Inghilterra liberata dalle tossine della Chiesa Bassa e, di fatto, cattolica. Si può quasi affermare che, non essendo riuscito a far confluire tutto l’Anglicanesimo nella Cattolicità, si arrese a convertirsi da solo, anche se fu, poi, seguito da molti discepoli.
Tra i numerosissimi ammiratori di Newman ci fu anche Francesco Cossiga, da poco scomparso. Il presidente emerito, in un articolo scritto per la rivista "Vita e Pensiero”, riprese un intervento del Cardinale nel quale il futuro Beato ebbe a sostenere che vi sarebbero dei casi “nei quali la coscienza può entrare in conflitto con la parola del Papa e che, nonostante questa parola, debba essere seguita”. Letta così, si direbbe una legittimazione dei “cattolici-adulti”, non crede?
L’affermazione che la coscienza è il supremo tribunale dell’individuo è corretta solo se interpretata nella sua lettura tomista, vale a dire solo se la coscienza non è corrotta, anche ex ante, da colpevoli pregiudiziali. La persona ha il dovere morale di aderire alla Verità e di formare la propria coscienza alla luce di questa. Una coscienza formata alla luce della Verità diviene, almeno nel lungo periodo, pressoché infallibile, perché la Verità la plasma e la abitua a non lasciarsi sedurre dal mondo. Ecco che è vero che la coscienza così formata deve guidare la persona più delle stesse parole del Papa, perché essa porta alla Verità. Si pensi, ad esempio, alla strenua battaglia di sant’Atanasio contro le influenze ariane tollerate, quando non favorite dal Pontefice. Egli, per Cristo e la Verità, patì persino la scomunica. Se si vuole un esempio più recente si pensi alla strenua difesa della Verità cattolica di Monsignor Marcel Lefebvre, che con il grande santo del IV secolo, condivise zelo, determinazione e dedizione assoluta del dogma. Ogni legittimazione dei cattolici adulti in base al principio dell’ossequio ai dettami della propria coscienza è viziata ab origine dall’accettazione delle influenze mondane contro il dogma e la Tradizione. Dogma e Tradizione sono sinonimi, come molto bene ha espresso san Vincenzo di Lérins quando ha definito il primo come ciò che tutti, sempre e dovunque hanno creduto nella Chiesa. In conclusione, si può affermare che la coscienza rettamente formata può essere invocata solo dai difensori della Verità di sempre e mai dai novatori, cui ben si addicono le parole di san Paolo: «Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole» (2Tim 4, 3-4).
A parer suo qual è l’elemento oggi più attuale del pensiero di Newman?
L’attualità di Newman è la sua inattualità, vale a dire la capacità, che egli condivide con ogni cattolico di essere eternamente attuale ed eternamente fuori tempo, perché legato indissolubilmente alla Verità eterna e, quindi, irrimediabilmente nemico di ogni adeguamento ai tempi, che, in fondo, non è altro che resa al Principe di questo mondo. Tanto come dire che la persona pervasa dalla Verità trasuda eternità.
A proposito, com’è possibile che un convertito di razza, per giunta stimatissimo anche da Benedetto XVI, sia stato talora additato come una sorta di precursore del modernismo e di propiziatore della nouvelle theologie?
«Datemi una frase e vi condannerò un uomo» recita un antico adagio popolare. È esattamente ciò che hanno fatto, a partire da Tyrrell e Buonaiuti, tutti i modernisti, nouvelles theoligistes compresi, nei confronti di Newman. Prendendo alcune frasi, soprattutto della Grammatica dell’assenso, ed estrapolandole dal contesto e, soprattutto, non applicando quell’altro splendido proverbio che dovrebbe guidare l’esegesi di ogni testo, vale a dire «prendete le parole dalla bocca da cui vengono», hanno attribuito a Newman una lettura soggettivistica della gnoseologia, dimenticando che egli dava per scontata l’oggettività del reale e si concentrava sulla capacità del soggetto di adeguarsi all’oggetto. Hanno scambiato un’introiezione e spiritualizzazione, quasi ascetica, del già conosciuto come lo strumento stesso del conoscere. Tyrrell, ad esempio, era convinto di trovare nelle dottrine sul «senso illativo» della Fede del Cardinale Newman l’anello di congiunzione tra il Cattolicesimo e il pensiero moderno, fraintendendo il concetto di evoluzione del dogma del grande convertito inglese dell’Ottocento, che era sempre il cattolico sviluppo endogeno del dogma, vale a dire la possibilità e capacità della Chiesa di dire in modo sempre nuovo e più ricco ciò che ha sempre detto e solo quello: nove et non nova. Newman si è scagliato contro l’antidogmatismo protestante già quando era anglicano, potremmo dire, almeno in parte, già quando subiva le suggestioni calviniste della Chiesa Bassa d’Inghilterra. Attribuirgli queste posizioni, da cattolico, è ribaltare completamente il suo pensiero. Spesso il Cardinale inglese viene usato dagli assertori dell’ ecumenismo come un anticipatore dei temi a loro congeniali, affermando che è un precursore della comunione fra i diversi cristiani, ma Newman non ebbe mai a porsi di fronte ad un inverosimile ecumenismo delle religioni, lo avrebbe visto come una pericolosa teoria sincretista: la Chiesa di Cristo è unicamente quella romana e cattolica e l’obbedienza è la prova della Fede. L’ortodossia di Newman fu del resto difesa dallo stesso san Pio X nella lettera al Vescovo di Limerick del 10 marzo 1908.
Passiamo al gossip storico. Maligni internauti insinuano, sottolineando la sua lunga convivenza col già citato Ambrose St. John, da lei definito “grande amico d’anima” (p.40) del Cardinale, che Newman fosse gay. Scomoda verità o bufala?
Ella ha, giustamente, ascritto questa questione al genus del pettegolezzo; e, per questa ragione, in sede di biografia storica abbiamo deciso di non occuparcene, ma, in sede giornalistica ella ha fatto molto bene a sollevare la questione, perché mi permette di spiegare la genesi di questa vera e propria calunnia, scientificamente diffusa. Le lobbies omosessuali, in cerca di legittimazione nel mondo cattolico, appoggiate, purtroppo, anche dai loro amici all’interno della Chiesa, hanno diffuso questa calunnia, che trova facile terreno di coltura in una sedicente civiltà che, riducendo tutto a materia e l’uomo a corpo, quasi freudianamente a sesso, non comprende più che cosa sia un’amicizia d’anima. Per questi moralisti di Satana, non può esistere un rapporto unicamente spirituale, una comunione tra due anime, che si sorreggono reciprocamente nel duro cammino ascetico per giungere a Dio. Possiamo immaginare che cosa le loro blasfeme menti penserebbero, se si dovessero soffermare sul rapporto fra santa Scolastica e san Benedetto, su quello fra san Francesco e santa Chiara, su quello fra santa Teresa d’Avila e san Giovanni della Croce o su quello fra san Francesco di Sales e santa Giovanna di Chantal, per citare solo alcuni esempi di amicizia d’anima. Si tratta dell’espressione più mefistofelicamente perversa del vizio, siamo al vizioso che fa il moralista, al fine di giustificare il proprio vizio.
Se Newman vedesse i giovani d’oggi, così sovente sconfortati ma al tempo stesso incapaci di accostarsi alla Fede e di ammettere la loro nostalgia d’infinito, secondo Lei che farebbe?
Esattamente ciò che fece allora: affermare con assoluta, totale e rigidissima nettezza la Verità dogmatica, da cui discende, tramite la retta ragione, la morale. Solo la contemplazione di Dio e la sequela di Nostro Signore Gesù Cristo, anche nel comportamento, possono eliminare il tedio della vita e dare, a tutte le età, la gioia dell’Infinito.
Per concludere, un parere personale: che cosa ha imparato scrivendo questo libro? Anche lei deve un ringraziamento al venerabile Cardinale?
Ciò che mi è risultato molto più chiaro e, soprattutto, ha acquisito un sapore particolare, una sua fragranza spirituale è la strumentalità della ragione e, quindi, della teologia, alla Fede. Studiando il Cardinale Newman, si vede come questo principio non abbia solo una valenza negativa, ma, soprattutto, ne abbia una positiva. Non è solo vero che, staccando la ragione dalla Fede ed orientandola contro di essa, si uccide la stessa ragione; tale principio mi è sempre stato chiaro e gli esempi di molti pensatori, soprattutto contemporanei (si pensi a Kant, Voltaire, Marx, Freud…), stanno lì statuariamente a dimostrarlo. Ma, con il santo oratoriano inglese, si può valutare quanto la ragione possa, con la sua azione incessante, sostenuta dalla volontà, implorare la Fede a Dio; come il lavoro intellettuale possa assurgere al rango di preghiera e possa, con la sua fatica ed il suo dolore, muovere Dio a compassione ed indurLo a concederci il dono della vera Fede… È questo il motivo di maggiore gratitudine che conservo per questo grande santo, dopo, ovviamente, la riconoscenza che mi unisce a tutta la Chiesa per il gran numero di conversioni dallo scisma da lui prodotte ed agevolate